Ci sono momenti, eventi, singole giornate che impattano sulla vita di tutti quanti, a qualunque latitudine. Il Natale è certamente l’evento che più impatta sulla vita di belli e brutti, credenti o non credenti. Ognuno poi vi risponde come vuole, ma nessuno può evitare di averci a che fare. Impatta, e tanto, anche su chi nella vita si dedica alla produzione dei dischi. Il mercato dei dischi natalizi, una tradizione americana incrollabile tanto quanto il tacchino il giorno del ringraziamento, è ancora piuttosto fiorente in un paese che da tempo ha sostituito il Natale con il più politically correct “stagione delle feste”, la holidays season per non urtare i credenti di altre religioni o i non credenti. Abitudine che sta prendendo piede anche da noi.



Resta il fatto che il Natale è il compimento di una attesa a cui ognuno consapevole o no guarda e per questo ci sono dischi di Natale che sembrano fatti per placare questa attesa. Per qui pochi minuti che può durare una canzone, l’attesa può trovare una risposta, trovare soddisfazione, evocare un oltre che supera di schianto la nostra fragile intemperanza. Sentimentalismo? No, a quello ci pensano i dischi di Natale di Mariah Carey o di Kenny G. La mia vita per ora è solo un’attesa, sembrano dire invece ben altre canzoni. L’attesa che avvenga. Cosa? Che qualcuno ci venga incontro a dirci che la nostra sofferenza è finita. Solo chi ha molto sofferto attende.  



Perché ad esempio uno come Mark Lanegan sente il bisogno di fare un disco di Natale? Le domande ovvie con lui non hanno risposte ovvie. Mark Lanegan non lo fa per i soldi. Intanto perché è un artista che già di suo è relegato all’area cult di poche migliaia di appassionati. Poi perché il disco in questione non lo si trova neanche nei negozi, visto che lo vende solo ai concerti. I più smaliziati lo troveranno tranquillamente anche sulla Rete. Di fatto, per la stragrande maggioranza è un disco che non esiste affatto. Eppure Mark Lanegan (quello il cui ultimo disco si intitola “Blues Funeral” e che normalmente canta di morte e paura), sopravvissuto a quante più droghe possibili e sopravvissuto ad amici come Kurt Cobain che si sono sparati un colpo di fucile in faccia, ha inciso sei canzoni di Natale. 



“Mark l’oscuro interpreta il Natale”, “Dark Mark does Christmas” si intitola il dischetto anticipandone i toni e affermando un dato di fatto. Sofferenza, attesa e compimento dell’attesa. L’oscurità che da sempre incarna questo cantante straordinario si squarcia inevitabilmente nelle canzoni natalizie incise. Mark Lanegan da sempre ha una vocalità unica, il dolore fuoriesce inarrestabile da ogni sillaba che canta. Ecco forse la risposta al perché ha fatto un disco natalizio: per fermare questo dolore. Ma è inutile chiedere a un moto dell’arte il perché. In questi sei brani in tutto di una intensità da strappare la pelle dalle ossa, solo voce, chitarre e un banjo; un brano anzi solo voce, a cappella, c’è qualcosa che va oltre il dolore senza senso. Ascoltandole, è come se tutta la fatica accumulata in un anno di vita si stemperasse nel compiersi di una attesa durata dodici mesi: è evidente che in questo suo canto natalizio c’è una tensione che sfocia nella implorazione. Nel ringraziamento anche, nella luce che penetra l’oscurità del resto dell’anno. D’altro canto, lui è “Dark Mark”, Mark l’oscuro.

Se la gente ha abbandonato il Natale per trovare conforto nelle più accomodanti “feste di stagione” Lanegan va a sfidare il territorio più consueto dei canti natalizi rivendicando il significato profondo di questo evento. E’ come se si fosse ormai ritrovato da solo, abbandonato, nella navata di una grande chiesa gotica da cui tutti sono fuggiti. E’ solo, ma non è solo. Impossibile non pensare alle parole di T.S. Eliot: “È la Chiesa che ha abbandonato l’umanità, o è l’umanità che ha abbandonato la Chiesa?”. Lanegan a questo non può e non sa rispondere, ma non importa. Lui, in quella chiesa abbandonata, c’è entrato comunque.

In questo senso il super classico O Holy Night sconfina in un grido che gela il sangue nelle vene e rinnova la potenza infinita dell’attesa. E’ una notte santa, grida, è davvero una notte santa. Non ci sono alternative in quella che è una delle più straordinarie esecuzioni vocali che si ricordano da sempre. “Fall on your knees, Oh hear the angel voices; Oh night divine, Oh night when Christ was born, Oh night divine, Oh night, Oh night divine”: l’uomo rimasto solo può solo abbandonarsi a questa evidenza.
Lanegan sa in che territori muoversi per una serie di registrazioni scaturite da ricordi ancestrali, dalle voci di generazioni che incessantemente le hanno ripetute ogni anno. Il suono low-file, l’amplificazione cavernosa, l’eco che rimbomba come un ammonimento.

The Cherry Tree Carol, canto che risale al 15esimo secolo, ricorda con tenerezza la figura della Vergine Maria fidandosi solo di un banjo di accompagnamento: è la voce di tutti gli uomini che hanno costruito l’America nel bene e nel male, fantasmi rifiutati dall’America di oggi, quella che fa strage nelle scuole e tra i bambini, fantasmi che prepotentemente riemergono. Riaccade ancora nella nuda voce di un tradizionale inglese antichissimo, Coventry Carol, che ricorda non a caso la strage degli innocenti voluta da Erode: allora, come adesso, con puntualità sconcertante, le stragi degli innocenti riaccadono e i bambini muoiono.
Ecco l’arrivo dei Re Magi in una scarna ed emozionante We Three Kings antica anch’essa come è antico l’uomo che fa canzoni, e per non smentirsi Lanegan decide di chiudere con un Natale laico ma altrettanto lacerante, quello composto dall’extra terrestre della musica rock Roky Erickson, Burn the Flames: “a little Christmas spirit” invoca, per scacciare vampiri e tutte le altre mostruose creature del buio.
La vita per ora è solo un’attesa, squarciata da una Notte Santa. Per chi vuole ascoltare, Mark Lanegan ce lo sta dicendo: Natale è questa notte. L’attesa è finita.

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