Tobia si è perso volontariamente nella nebbia anni fa, ora cammina a testa bassa assordato dal silenzio della neve tanto attesa, ancora vivo nonostante il freddo, il freddo che gli brucia la pelle e gli fa dolorosamente sentire che non è morto. Non ancora.
Perché darsi tanto da fare? Perché dannarsi l’anima per avere un amico, che quando è la fine, quando sei li alle due del mattino davanti ad una bottiglia sempre più vuota, sei comunque da solo? Ha buttato il cellulare in qualche fosso Tobia.
Che siamo tutti qui a postare, twittare, frugare nelle vite degli altri sperando di trovare chissà chi, chissà che. Almeno spuntassero un paio di occhi. Un paio di occhi scuri con una storia da raccontare. Siamo sempre più social, sempre più soli.
Accendiamo il cellulare e spegniamo noi stessi, viviamo di luce riflessa, lo schermo dello smartphone. Bella evoluzione la nostra, sempre meno sapiens e con il pollice opponibile relegato a pigiare sullo schermo.
Dov’è la speranza, dov’è l’attesa che ormai è solo attesa che il nostro contatto ci risponda su whatsup? Una settimana intera con la rete intasata dalla fine del mondo e poi più nulla. Come se davvero tutto fosse finito. Come non accorgersi che la nostra fine è già cominciata da un pezzo? Siamo seduti di fianco, siamo seduti di fronte e sul nostro schermo comunichiamo ai nostri follower che siamo seduti di fronte e che stiamo scrivendo che siamo seduti di fronte scrivendoci, come dei cretini, come in effetti siamo.
Non viviamo più, stiamo solo cercando notizie da pubblicare.
Cammina sulla neve nella notte Tobia. Gli è sembrato di vedere quegli occhi scuri, troppo lontani, ha spento il cellulare e ha cominciato a camminare. Tanto anche l’ultimo lavoro è andato e la sua dignità pure. Ma il cuore non molla when I’m on my knees I still believe dicono i Mumford, anche quando sono in ginocchio, quando la vita mi ha sfiancato, quando sembra non esserci più nulla da perdere, non smetto di credere. Che la luce che brillava in quegli occhi scuri come la notte significhi che la vita non è la fine. Meglio non dire i pensieri dell’inferno che l’hanno portato fin qui.
Perché piangendo ed imprecando anche quest’anno sembra stia arrivando il Natale. Insperatamente. È il Natale dei brutti e cattivi, il Natale dei bassi e grassi, il Natale dei poveri e malridotti. Si, perché per i ricchi, i potenti, i politicanti, il Natale arriva sempre e comunque. Privo di vera sorpresa, privo d’attesa. Scontato. Tanto hanno già tutto, tutti i giorni. Ma per i poveracci? Per noi è un vero miracolo. Davvero. C’era chi non mi dava fino a Natale. Invece è arrivato. Ci sono arrivato. Insperabilmente. Inspiegabilmente. Come il profumo che sprigionava il muschio quando da piccolo si addormentava che il presepe aveva ancora le luci accese. Cantava quell’altro. Un bimbo piccolissimo le porte ci aprirà, del cielo dell’Altissimo nella Sua Verità. Natale. Un bambinello che si prende la briga di rispondere alla mia solitudine, al mio vuoto, alla mia assenza, alle mie bestemmie. Rispondere. Con la promessa di colmare quell’assenza. Cammina Tobia, sulla neve. Ti aspetto marmocchio.