Uno come Giorgio Gaber oggi non c’è, nemmeno a pagarlo quanto gli alimenti di Veronica Lario. Non c’è, non l’hanno più fabbricato, e questo è un male, perché Dio sa quanto ci sarebbe necessaria una voce come la sua. Possiamo solo ascoltarla, quella voce, protetta da uno stuolo di amici e parenti che però non sono come lui. 



Qualcuno ha provato a far rivivere i suoi testi teatrali, a portare in giro alcuni titoli dei suoi spettacoli di Teatro Canzone. Ma non è la stessa cosa, perché Gaber è stato uno di quelli che, come i Della Robbia, il segreto di fabbricazione se lo sono portato nella tomba. 

Mi è capitato di scrivere che la scelta principale di un intellettuale, oggi (e con “intellettuale” intendo anche un artista), è tra essere il buffone di corte o lo scemo del villaggio. O con il potere o sbeffeggiati dal potere. 



Il punto, in ogni caso, è il potere. Puoi far parte della maggioranza silenziosa, puoi schierarti con una certa grazia nel solco del pensiero unico, oppure puoi votarti a un’esistenza di uomo-contro, autocondannandoti alla marginalità e alla speranza (perché tutti sono vanitosi, anche gli scemi del villaggio) di essere riconosciuto, magari dopo morto, come Paul Cézanne, per capirci.

Giorgio Gaber inventò una via diversa. 

Nessuno di noi vorrebbe essere il buffone di corte (di qualsiasi corte, s’intende), invece lo siamo quasi tutti: quasi tutti dobbiamo dire di sì a qualcuno. C’è chi si vanta di avere come unico padrone la Costituzione italiana, e sono i più patetici di tutti. Nessuno è veramente libero: al soldo di qualcuno o con i propri soldi, il problema è sempre lo stesso, trovare una collocazione. 



Inoltre, nessuno, va da sé, vorrebbe essere lo scemo del villaggio – un destino di puro dolore riservato a qualche genio oppure a chi scemo lo è per davvero (e tutti sanno che distinguere le due cose è difficile ed espone al rischio di brutte figure).

Giorgio Gaber non fu né l’uno né l’altro. Come i giganti del teatro, come Euripide, come Molière, Gaber nei suoi spettacoli non si accontentò di parlare di politica (anche se lo fece con grande maestria e ironia), ma fece politica, fronteggiò il potere senza entrare nel suo palazzo, ma costruendo un palazzo di fronte a quello del potere, così da poterlo tenere sotto tiro. “Teatro Canzone” fu il nome che Gaber diede a questa sfida, a questa battaglia. Oggi c’è chi ha riprovato a usare questa forma, ma sono gusci vuoti: il Teatro Canzone era lui, era Giorgio Gaber. Il resto è fuffa. 

Gaber è stato l’ultimo grande intellettuale di questo paese. Nessuno, dopo di lui, ha compreso con altrettanta chiarezza quanto poteva essere grande il potere del Teatro, ossia il potere senza potere di una tribuna libera. 

I suoi spettacoli erano questo: il pubblico intorno, lui al centro e il vuoto in mezzo. Dentro quel vuoto non esisteva altro potere che quello della libertà: qui stava la forza del teatro di Gaber. Nella sua nudità, esso risultava quasi invulnerabile.

Però bisognava essere all’altezza di questa forza. Se se la fosse presa − come quasi tutti − con i politici, con gli uomini di governo o con i personaggi del solito teatrino mediatico, avrebbe finito con l’entrare nel palazzo del potere, come hanno fatto tanti suoi illustri colleghi, coetanei e più giovani, come Benigni o Crozza, bravissimi e geniali, ma che, alla fine, appartengono alla stessa giostra, e ne pagano il prezzo, anche se il guadagno è buono. 

Gaber conosceva troppo bene il potere per annoiarsi con le presunte malefatte dei personaggi pubblici. A lui interessava il potere a cui tutti noi diciamo “sì” diventandone parte in ogni caso, anche se ci atteggiamo ad anticonformisti. A lui interessava il potere che si annida nella malinconia della vita di coppia, nella viltà degli intellettuali, negli ideali traditi, nella bellezza degli errori giovanili, nella concezione del lavoro, nel rapporto padri-figli, e nella smania dell’affermazione di sé che si risolve in una completa dimenticanza di sé. 

Quando Gaber parlava del potere, le sue parole erano l’eco di indagini profonde, di cui si è persa oggi l’abitudine: non il potere dei politici, ma il potere diffuso, che − come diceva Michel Foucault − attraversa i corpi negli atti stessi del conoscere, del parlare e del godere. Tutti siamo corpi politici, perciò di tutti val la pena di parlare come soggetti di potere. 

Nel suo centro vuoto, nudo, misero e perciò indigesto a molti, Gaber istituì il suo scandaloso tribunale: ci aiutò a sentirci quello che eravamo: illusi, mentitori, grassi, artritici, cattivi. Ci aiutò ad avere pietà di noi stessi, ma senza indulgenza.

Oggi siamo tutti sinceri, consapevoli, magri, atletici, buoni. Il nostro peggior difetto è di essere troppo buoni, e le colpe dettate dalla passione c’ispirano indulgenza. La letteratura e il cinema, come il teatro, ci regalano emozioni. Ma non sappiamo più avere nessuna pietà di noi stessi. Forse anche per questo non sappiamo più che cos’è la politica.