Uscendo, dopo diverse ore di spettacolo, dall’anteprima del Lohengrin scaligero del 4 dicembre non potevo non tornare alla memoria alle mie prime esperienze con Wagner, chiamato ‘’oscuro’ nel titolo  un libro di successo di Mario Bortolotto. La prima volta che misi piede in un teatro d’opera fu a Roma nel 1954 (avevo 12 anni) per Der Fliegende Holländer, allora ancora chiamato Il Vascello Fantasma (secondo una prassi francese) e rappresentato in tre atti (non, secondo l’intenzione dell’autore, senza intervalli): dirigeva Karl Böhm. Un allestimento tradizionale di Camillo Paravicini. Cantavano Leonie Rysanek, Ludwig Weber e Hans Hopf. Non c’erano sovra titoli ma compresi ogni accento e ne restai incantato. Da allora l’opera in generale, non solo quella di Wagner, diventò parte della mia vita. Pochi anni dopo, vidi ed ascoltai, in diurna domenicale, senza sovra titoli, Tristan und Isolde dirigeva Heinz Wallberg, regia di Friedrich Schramm, scene di Emil Praetorius, e con Birgit Nilsson (Isotta), Rita Gorr (Brangania), Wolfgang Windgassen, Gustav Neidlinger e Alfons Herwig. Infine, nel 1961, sempre a Roma  il Ring diretto da Lovro Mata I con un cast di altissimo livello (le quattro opere spalmate su sei giorni) e con la regia di Wieland Wagner e, subito dopo, Lohengrin cantato in italiano alle Terme di Caracalla, e con una regia tradizionale e colossal (cavalli in scena al primo atto). Allora si andava a teatro in autobus, lo spettacolo iniziava alle 21 e si tornava con il “notturno” dopo le due del mattino. Stanchi ma lieti.  Ciò che più mi colpiva era la trasparenza rispetto al melodramma verdiano (a cui ero uso).



Un caso isolato? Nel 1992, non potendo lasciarlo a casa, portammo a Spoleto nostro figlio quindicenne per una buona edizione di Die Meistersinger von Nürnberg: l’opera è la più lunga di quelle di Wagner (quattro ore e mezzo di musica). Lo spettacolo iniziava alle 16 e tra il secondo e il terzo atto (due ore e venti minuti) si prevedeva un intervallo di un’ora e mezza per la cena. Regia ancora una  volta tradizionale. Sovra titoli. Il ragazzo si divertì, rise e seguì il complesso intreccio. Ultimo esempio: nel gennaio 2009 invitai tutta la famiglia (figlia, figlio con la sua compagna) alla prima del Lohengrin al Teatro Massimo di Palermo. Inizio alle 18 con cena dopo spettacolo, sovra titoli, allestimento efficace di Hugo de Ana. Rimasero entusiasti. Anche in questo caso una produzione a basso costo (ad esempio senza cavalli in scena) ma tradizionale in cui si individuavano bene i tre assi porta della ‘grande opera romantica in tre atti’ (così la chiamò Wagner): a) il contesto storico della chiamata a raccolta di regni e ducati germanici contro l’invasione degli ungaro-finnici; b) il quadro religioso (Wagner era un luterano praticante) dell’inizio del cristianesimo in un mondo in cui si veneravano le divinità animiste; c) l’amore concepito  come fiducia piena nel partner, mancando la quale scatta la tragedia.



La sera del 4 dicembre il pubblico di giovani è stato entusiasta e ha rivolto vere e proprie ovazioni all’orchestra e agli interpreti. Parlando con alcuni di loro in metropolitana mi domando quanti abbiano afferrato il complesso gioco psicanalitico della drammaturgia di Ronny Dietrich e della regia di Claus Guth. Solo il terzo dei tre elementi indicati (il rapporto d’amore) si percepisce a tutto tondo. Ne parleremo più a lungo in sede di recensione. Ma allora perché tutti quei giovani si sono spellati le mani applaudendo? Ha vinto ancora una volta la trasparenza della musica di Wagner rispetto a drammaturgia e regia che diversi musicologi in sala consideravano ‘oscure’.

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