Il nuovo disco di Francesco Guccini è da commentare con una caterva di “forse”. Potrebbe essere il suo ultimo lavoro discografico e anche l’ultimo momento in cui vedere live il cantautore modenese. Lui l’ha detto, che ora appende la chitarra al chiodo di Pavana, ma potrebbe anche essere un “forse”, visto che si è dato “solo” un 99% di possibilità di mantenere l’impegno. “L’ultima Thule” – questo il titolo dell’album – è un disco pieno di sfumature e possibilità, di ricordi e di memorie, spesso caldo per ciò che riguarda ideali e tempi andati, freddissimo e tagliente sul presente e sul futuro. “L’ultima Thule” è un disco onesto, ricco, ben cantato (chi adora l’idioma e la cadenza di Guccini la ritroverà fino in fondo), ma “forse” non pienamente entusiasmante. Forse ci sono dentro troppe nostalgie, forse c’è troppa musica non gucciniana, forse il coraggio dei bei tempi giovani ha ceduto la poltrona alla fatica sconsolata, ma anche questi potrebbero essere pregi e non difetti. Le canzoni, da Canzone di notte nr. 4 (“Quando è stata quell’ultima volta che hai sentito tua madre cantare quando in casa leggendo il giornale hai veduto tuo padre fumare mentre tu ritornavi a studiare… in quei giorni ormai troppo lontani era tutto presente e il futuro un qualcosa lasciato al domani un attesa di sogno e di oscuro un qualcosa di incerto e insicuro”) ad Artisti, sembrano nate tutte al crepuscolo e la passione, che pure c’è, si distende su oasi di stanchezza per una lunga vita vissuta sui libri, sui palchi, sugli ideali. Su tutto aleggia la voglia di umana verità, il carattere mai sopito del ribelle alle falsità, ma il possente richiamo al passato forse non rende equilibrio del tutto. Tante domande, tanti dubbi: dove è finito quello che avevamo sperato? Dove abbiamo sperperato le nostre forze? Chi ci ha impedito di costruire? Quell’immensità a cui tendevamo è scomparsa oppure è solo nascosta? Domande, come sempre, domande: ma quale disco dell’autore di “Radici” non se le porta dietro in quantità ingombrante?



Le grandi canzoni di questo disco che segue dopo otto anni il precedente “Ritratti”, “forse” sono solo quattro, ma su otto pezzi in totale fa comunque una buona percentuale. Emozionante è Su in collina, una canzone partigiana di morti sull’Appennino con una melodia cupa e parole che sanno di vento, carabine e sangue. C’è molta coscienza sociale in Quel giorno di aprile, racconto di un Italia liberata da tiranni e invasori, Paese che si apriva alla speranza di un futuro migliore. Ma forse l’elegia sociale è superata in qualità musicale dal pastiche caustico di Testamento di un pagliaccio, Una specie di post-mortem in cui i ruoli si sdoppiano, in cui Guccini sembra raccontar di se stesso e di tutti coloro che hanno affidato la vita a un ideale politico e culturale.



Ma in questo lavoro c’è, monumentale, la canzone che titola il disco, qualcosa che ha il sapore dei libri di Bjorn Larrson (quello della saga di Long John Silver) e di certi racconti di Conrad. Una canzone cocciuta come fosse la prosecuzione e il finale di Velasquez di vecchioniana memoria: “Io che ho doppiato tre volte capo Horn e ho? navigato sette volte i sette mari e ho visto mostri ed animali rari, l’anfesibena, le sirene, l’unicorno… Dov’è la ciurma che mi accompagnava e assecondava ogni ribalderia? Dove la forza che ci circondava? Ora si è spenta ormai, sparita via… Le verità non vere in cui credevo scoppiavano spargendosi d’intorno, ma altre ne avevo e giorno dopo giorno se morivo più forte rinascevo…”.



Canzone pazzesca, vero capolavoro dall’incedere ricchissimo, con richiami d’Oriente e di Mediterraneo per una costruzione che sa di etnico, ma anche di ballata, con le chitarre piene che da sempre sono il marchio di fabbrica gucciniano. E il testo è aspro e sferzante, solitario e impavido come in un’epoca post Avvelenata: “E ora son solo e non ho più il conforto di amici andati e sempre più mi assale la noia a vuotar l’ultimo boccale come un pensiero che mi si è ritorto. L’ultima Thule attende e dentro il fiordo si spegnerà per sempre ogni passione, si perderà in un’ultima canzone di me e della mia nave anche il ricordo”.

 

Guccini il grande – forse, ancora una volta forse, il più grande dei nostri cantautori – ha 72 anni. Battiato ne ha cinque di meno. Entrambi hanno dedicato il loro ultimo disco al passato e all’insostenibile presente. Leonard Cohen, 78enne, aveva dedicato il suo ultimo “Old Ideas” ai suoi “ultimi tempi”. Verrebbe da dire che è dei cantautori riflettere sul crepuscolo. Per fortuna che Guccini il Modenese ci ricorda che “ancora farò vela e partirò io da solo, e anche? se sfinito, la prua indirizzo verso l’infinito che prima o poi, lo so, raggiungerò”.