Vieni, dolce morte, vieni , riposo benedetto!
Vieni, conducimi nella pace,
perché io sono  stanco
di questo mondo!
Vieni, ti attendo.
…I miei occhi sono già chiusi.

Per ben cinque volte ritorna il primo verso citato dall’aria “Komm süsser Tod” di J.S. Bach (BWV 478). E per altre cinque volte  ricorre l‘emistichio “vieni, benedetto riposo”.
Dieci volte la stessa nota, dieci volte un invocativo che chiama con il tu la morte stessa, come la si chiama nella Cantata 161: “Vieni Tu, dolce ora della morte”.
La morte dunque è un’ora, l’ora dell’addio al mondo, divenuto troppo angusto, angosciato dalle sue stesse tenebre precludenti lo spazio infinito e pieno di stelle e della luce del sole che l’anima desidera. Uno spazio pieno di angeli, un firmamento di zaffiro splendente nella luce di Cristo (Schwarzen Welt… Blaue Sternenzelt).



L’ora dell’incontro definitivo con Cristo: “Ora voglio vederti, o Gesù (Ich will nun Jesum sehen).
Vederti: è la visione beatifica, che rende beati come il beato (selge) riposo. Là, dove quell’invocazione al selge Ruh, appunto “beato riposo” (e in Tedesco è di genere femminile, come i nomi di molte cose grandi ) indica l’acquietarsi della creazione nel suo compimento, quasi nuovo sonno di Adamo nell’attesa del farsi nuovo di tutte le cose.



È un restare, un riposare; stare su di sé che equivale all’approfondimento di sé: è scendere in sé. Non come stasi e immobilità del cadavere, ma come un “transumanarsi” (si licet…) entrare nella trasfigurazione definitiva.
È, questo riposo, un sempre e nuovo essere creati nelle dimensioni di un nuovo respiro, quello che era all’inizio del tempo e anelava al compimento in Cristo della creazione stessa.

Il riposo è risalire (come – anche – uno scendere) allo stato di beatitudine; è il pulsare del cuore dell’uomo che attinge e si immerge nel Cuore del mondo, così da creare un tessuto in cui tutti i cuori si partecipano, senza smarrire il proprio sigillo di unicità. Non è un perdersi in un panteismo impersonale, un naufragar dolce nel mare dell’oblio come volevano i vertici della saggezza antica: pensiamo allo stoicismo di Cleante di Asso che sentiva Dio come padre, ma non poteva salvare  dall’ indeterminazione di un impianto meccanicistico la nostra anima intrisa di materia. Non è possibile cancellarsi. Anche chi, oggi, volesse disperdere le proprie ceneri nello spazio, gettandole da una navetta spaziale, non potrebbe togliere il fatto di essere stato accettato (acceptus, conceptus in sinu matris) nell’ esserci dell’ esistente: vanamente vorremmo nientificarci. “Siamo imbarcati” direbbe Pascal… Dunque la morte è una tappa dell’ essere stesso?



Oppure il morire è puro dissolversi, è cioè vuoto apparire mentre il soggetto che muore non c’è più come pensavano gli altri materialisti, gli epicurei? Qual è il dramma del perder la propria vita invocandone la resurrezione dopo i tre giorni del sepolcro se non la speranza di esser risparmiati dai flutti e riuscir” a riveder le stelle”?  E’ veramente la fine la nostra morte? Questo reale non-esser più dell’ essere particolare che siamo è un no definitivo di questa meravigliosa vita alla meravigliosa vita? Con il nulla come risultato?

L’anima cristiana del XVIII secolo che scrive i versi di “Vieni, Dolce morte” – il testo, anteriore al 1736, è di anonimo – e che li inserisce in questo canto, come attinge queste profondità teologiche? Vi arriva  perché così sente. Potremo citare qui  un grande interprete di Bach, Philipp  Harnoncourt, il quale avverte noi, esseri positivi verificazionisti, che “Di ciò di cui non si può parlare, si può, anzi si deve, cantare e far musica, se non si può tacere”.

Sì, l’ anima (ed è bene che riprendiamo a parlare di anima ) sente che la morte è un’ora, un’ora che Cristo ha trasfigurato in un’ora bella, perché passando in quella, si giunge a vedere “il più bello tra i figli degli uomini”.
Sorprendentemente già Platone aveva scritto che “la potenza del Bene si è rifugiata nel Bello”. La morte è l’ approdo al trionfo del Bello, pur in tutto il contrasto angoscioso delle  tenebre piene di lacrime e lamenti che sgorgano dal dolore umano che ci avvolge come una stanza delle torture (Marterkammer).

Nel mondo bizantino, sia slavo sia greco, il Crocifisso è visto già nella luce: la luce della resurrezione; da noi (pensiamo  a Giotto, al Lorenzetti, all’ Angelico..) vi si scorge la letizia finale del “ Consummatum est”. Il Salvatore svela un arcano sorriso nell’abbraccio finale delle sue braccia confitto al legno amarissimo. Ma nel mondo nordico, tedesco e sofferente dell’angoscia della propria salvezza, spesso l’abbandono e la nudità del Crocifisso è soverchiante (Mein Gott, Mein Gott, warum hast Du mich verlassen?): pensiamo ai fiamminghi, a Gruenewald.

È invece nella musica delle cantate di Bach, dove il tema è proprio il morire, che il mondo tedesco, e in genere il Nord Europa, sente la definitività che si avvicina. Il Grande di Eisenach trattò più volte questo tema, e perciò non giunse impreparato alla morte (Cantate n. 8; 32; 53; 56; 82; 106; 114; 156; 161, 162). Nella Passione secondo Secondo Matteo noi deponiamo Gesù nel sepolcro e ci sediamo ai bordi della pietra dicendo al tramonto del giorno, quel giorno: “Buonanotte, mio Gesù. Mio Gesù: buonanotte”, in un canto straordinariamente sereno.

È, infatti nella musica, con la parola fatta canto partecipato e commosso, che nelle cantate di Bach, come nelle arie e nei corali e nelle Passioni, l’ anima tedesca riafferma l’ortodossia cattolica come grande nostalgia: la musica può in qualche modo superare la lettera della teologia che ci ha così diviso. La parola elevandosi in canto ridiventa ricca, fiorisce con un accento nuovo (accento: ad cantus). La morte è così percepita in tutta la verità del simbolo apostolico e nel giudizio misericordioso di Dio che abbraccia fede e opere del cristiano. E’ una nostalgia che porterà sia Bach, sia Beethoven a scrivere, come fra le loro più care opere la Messa in si minore e la Missa Solemnis. Nel capolavoro del maestro di Bonn, il Credo è come un tempio posato su quattro note centrali che incrociano le due sillabe “cre-do” quasi pilastri di reminiscenza gregoriana.

Si perdoni a chi scrive questa insistenza sull’ animo tedesco o sul senso trasfigurante della Liturgia bizantino-slava (tutti i mesi partecipa alla Divina Liturgia bizantino-slava): è vero però che tutti viviamo di desiderio di una salvezza di questa Europa così trafitta dal Novecento e così evidentemente chiamata a ritornare alle sue origini di realtà fiorita sulle quattro radici : greca, latina, ebraica e cristiana .Il “credo” di Beethoven? Potrebbe essere una tesi  da affrontare!

La musica penetra la nostra carne e le nostre ossa: biblicamente le ossa sono come l’ anima: non si dissolvono ma si pietrificano come segno dell’ attesa che su esse tornino i tendini e i muscoli e la pelle (visione di Ezechiele). La musica è come un anticipo di questa realtà finale: sulla musica pietrificata delle nostre ossa sepolte comincia già ad elevarsi la sinfonia di archi e volte e guglie dell’ ultima e definitiva cattedrale. La dimora di Dio con gli uomini che canta essa stessa quale “musica pietrificata”. 

Morire è dunque questo dolce passare nel definitivo che vedrà una nuova carne e un mondo infinitamente più bello e grande di questo che pure vede la bellezza del nascere: (del presepe, dell’ adorare beato di Maria, dello stupore sgomento dei piccoli e dell’ inchinarsi dei potenti. Per questo il canto, segnatamente quello di Bach che sembra non terminare mai, riprendendo e variando le stesse intuizioni fino ad esaurirsi (la tavolozza è quella novella delle 24 tonalità da lui stesso temperata) è come un andare da inizio in inizio. Ogni festa una cantata nuova: ne abbiamo più di duecento, ma erano molte di più… E così la liturgia trascorre l’ anno: l’ Avvento, il Natale, il Mattino di Pasqua accompagnato dalla processione feriale dei salmi che tengono come in filigrana il lavorare, il gioire della nuzialità e delle feste, il patire e il morire dell’uomo. L’anima della musica è questo canto nuziale, questa musica dell’anima che entra e prende possesso del cuore, fino a ristorare in modo benefico e terapeutico la persona umana.

Mi si permetta qui un ricordo personale. Molti anni fa insegnavo a Mombello: nei locali recuperati dall’ospedale psichiatrico, che peraltro aveva ancora alcuni reparti funzionanti. Ricordo, nella bellissima chiesa cara al Card. Ildefonso Schuster, la “Messa dei pazzi” (come la dicevo fra me senza nominarla). 

Queste persone, che vivevano in altri mondi, con così evidenti minorazioni, durante la messa erano attentissime: chi in ginocchio, chi balbettando una preghiera, chi cantando, appunto. Era uno spettacolo commovente e vero. Il tribunale della ragione è il sacrificio di Cristo, dove povero o ricco, sano o malato, piccolo o potente l’ uomo accetta che gli angeli scendano sull’ altare della nostra passione. La Sua passione. La morte fa parte della liturgia, è dunque anch’ essa un canto: Vieni, dolce morte…

Che cos’ha a che fare tutto quello che veniamo dicendo con la “Dolce Morte”, l‘eutanasia? Perché l’ Europa (non solo essa) vuole cantare in astratto la morte? Perché decidere senza Cristo il morire che è per sempre offerta di Cristo al Padre?
Perché pretendere che i bambini possano decidere e firmare questo? (vi sono leggi che fissano questa possibilità ai dodici anni, ciò che sembra sferzare l’ episodio di Gesù dodicenne..)?

Alcuni giorni orsono ho ritrovato un vecchio disco di vinile con incise bellissime opere di Bach. Una in particolare mi colpiva: una trascrizione fatta da Virgil Fox, illustre organista, e da lui stesso eseguita: ” Vieni dolce morte”. Ampio il procedere iniziale, povero e generoso e vieppiù intrecciato  di lirismi e spunti nuovi; poi fiume impetuoso in un “forte” sempre più “forte”.
”Parole tornanti e ritornanti: ma non parole perché la trascrizione è per organo solo: echi e meta-, che viene in soccorso parole, invocazioni e grido finale: finale consegna di sé echeggiante l’ indicibile grido del Crocifisso. Eppure gioia.

Chi scrive ha fatto ricerche ma non ha ancora rintracciato lo spartito e ne sarebbe grato a chi ne avesse la pazienza di cercarlo e l’abilità di trovarlo.

Febbraio 2012
Nell’anniversario di Eluana.
Eluana: colei che porta aiuto…che viene in soccorso…
Vieni, dolce morte. Testo di anonimo, anno 1724,  aria di J.S.Bach.  BWV 478

Vieni, dolce morte, vieni riposo benedetto,
vieni, conducimi  alla pace
perché sono stanco di questo mondo.
Oh vieni, ti aspetto.
Vieni subito ed accompagnami:
chiudimi gli occhi
Vieni, riposo benedetto.

Vieni, dolce morte, vini,  riposo benedetto.
Più bello essere in cielo,
là ogni gioia è più grande.
Per questo ad ogni ora
sono pronto a  pronunciare il mio saluto.
I miei occhi si chiudono.
Vieni, riposo benedetto.

Vieni, dolce morte, vieni riposo benedetto.
O mondo, luogo di supplizi,
rimani lì con i tuoi lamenti straziati;
da questo mondo di dolori
io anelo al Cielo
la morte mi porterà là
Vieni, riposo benedetto.

Vieni, dolce morte, vieni riposo benedetto,
ciò che pur son stato
ora è tra le schiere degli angeli:
via da questo oscuro mondo
su, verso l’azzurro cielo stellato
su fino al Paradiso
o grazioso riposo!

Vieni, dolce morte, vieni riposo benedetto,
ora voglio vedere Gesù e stare fra gli angeli.
Tutto è ormai compiuto.
E  così: buona notte a te o mondo
I miei occhi già si chiudono.
Vieni benedetto riposo.

(trad. it. Lorenzo Fornasieri)

(Lorenzo Fornasieri)