Con pochissime eccezioni – Aretha Franklin, Al Green, Smokey Robinson sono i primi nomi che vengono in mente – sembra che i divi del soul o del pop nero siano condannati ad una morte prematura o a un pesante crollo psicofisico dovuto al calo di popolarità, oppure anche a tutt’e due come avvenuto a Whitney Houston, scomparsa domenica 12 scorsa ad appena quarantotto anni.
Eppure nel caso di Whitney nulla pareva far presagire questa catastrofe, poiché la cantante era nata e cresciuta in un ambiente privilegiato a livello musicale, e inoltre aveva conseguito risultati commerciali difficilmente eguagliabili.

La biografia innanzitutto: Whitney Houston nasce il 9 agosto 1963 a Newark, New Jersey, città tutt’altro che ridente, con un ghetto nero infernale ma con una scena artistica vivacissima all’interno dello stesso (da Newark vengono il trombettista jazz Woody Shaw, la regina della ‘disco’ Gloria Gaynor e il poeta LeRoi Jones, alias Amiri Baraka).

La mamma è Cissy Houston, leader del gruppo gospel Sweet Inspirations – che per molto tempo fornirà i cori ad un certo Elvis – la sua madrina è la citata Aretha, e sua cugina è nientedimeno che Dionne Warwick, la celebre interprete di tante canzoni di Burt Bacharach (aggiungiamoci un’altra cugina, Dee Dee Warwick, altrettanto brava ma non altrettanto fortunata a livello di fama planetaria): con questo retroterra di gran lusso, Whitney comincia a cantare ad appena undici anni nel New Hope Baptist Junior Choir, condividendo la formazione nel canto religioso comune a tanti artisti neri delle generazioni precedenti la sua, e da adolescente canta come corista per divi come Chaka Khan e Lou Rawls, senza dimenticare Teddy Pendergrass, il sontuoso e virile solista di Harold Melvin & The Blue Notes, che le darà il primo assaggio di successo in classifica duettando con lei in ‘Hold Me’ del 1984.

A diciotto anni, comunque, Whitney inizia anche una carriera di modella, che le frutterà fra le altre cose la copertina della popolare rivista per adolescenti ‘Seventeen’, ma a ventidue anni, nel 1985, compie il grande salto e pubblica il primo omonimo album, da cui escono due singoli numeri uno, ‘You Give Good Love’ e soprattutto ‘Saving All My Love For You’, setosa ballata ripresa addirittura dal trombettista d’avanguardia Lester Bowie, dell’Art Ensemble of Chicago (quando gli chiesero perché mai, egli sbottò ‘Se una canzone mi piace, la suono!’).

Altro numero uno fu ‘How Will I Know’, pezzo danzante ma che lascia intravedere nel testo una personalità più complessa del solito, e che insieme rimarca i legami familiari profondi – tipici della cultura nera americana – attraverso un semplice ma efficace artificio musicale: quando Whitney canta ‘Come farò a saperlo?’ la corista che risponde ‘Fidati dei tuoi sentimenti’ è sua madre Cissy.

Parimenti importante è la ripresa di ‘Greatest Love of All’, già registrata nel 1977 da George Benson per la colonna sonora del film su Cassius Clay ‘Io sono il più grande’; ascoltando le due versioni di fila si nota che, laddove Benson proietta il messaggio filosofico del testo accarezzando parole e melodia con la sua voce di un bruno ambrato, Whitney estroflette il discorso musicale con una vitalità insieme solare e fragile, sul filo di un precario equilibrio che lascia intravedere una vibratile sensitività. Ancora una volta la madre Cissy appare nel finale del video, ed inoltre la canzone sarà citata in una comicissima scena del film ‘Il Principe cerca moglie’ con Eddie Murphy.

Questo è il primo periodo della carriera di Whitney, all’insegna di un ‘pop disco’ accattivante e multirazziale, non solo specificamente nero, e con un successo garantito non solo dalla bravura della cantante, ma anche dalla sua immagine disinvolta e sbarazzina, con quel famoso sorriso in primo piano che, secondo un critico malevolo, farà sembrare i suoi video pubblicità per dentifrici.

Il successo porta a infrangere un primato storico, quando Whitney riesce in due anni a piazzare sette singoli consecutivamente al numero uno nelle classifiche pop americane, battendo il record di sei numero uno consecutivi detenuto addirittura dai Beatles- le classifiche R’n’B vedranno cinque numeri uno, ma spaziati nel tempo- e sembrerebbe ingabbiare la cantante in un limbo dorato, ma nel 1992, lo stesso anno dello sfortunato matrimonio con Bobby Brown, arriva la grandissima popolarità per il film ‘The Bodyguard’ con Kevin Costner, la cui colonna sonora sarà la più venduta di tutti i tempi con ben quarantacinque milioni di copie.

La canzone che fece la differenza fu ‘I Will Always Love You’, numero uno per quattordici settimane nella classifica pop e per undici in quella R’n’B’, che però non era nemmeno un brano originale, in quanto era stato scritto e interpretato da Dolly Parton nel 1974. Se ascoltiamo le due versioni di seguito, non sembra di sentire la stessa canzone, perché Dolly avvolge il racconto della fine di una storia in una mestizia dolorosa, un misto di sconforto e tensione tipicamente ‘country’, mentre Whitney dopo l’inizio felpato conduce il pezzo- grazie anche ad un cambio di tonalità efficacissimo- alla esplosione iniziale, gospelizzante ma anche al di là del gospel, quasi il tentativo di mascherare un’impotenza facendo affidamento sulla propria indubbia potenza vocale.

Riascoltati con orecchio storico, questi e altri brani rivelano come dietro l’apparente sicurezza si celasse una personalità complessa, ricca di fragilità ed esposta senza difese alle intemperie del successo clamoroso: come tanti altri prima e dopo di lei, Whitney si trovò a gestire una carriera piena di grandi successi senza forse averne la capacità, e qui come da copione arrivano cocaina, marijuana, pillole varie e ricerca di appoggi in una realtà che possa rassicurare, come la conversione all’Islam prima della morte.

In un’intervista del 2002, Whitney aveva detto: ‘Il più grande demonio sono io. Posso essere il mio miglior amico o il mio nemico peggiore’, echeggiando stranamente quanto detto da altri artisti caduti preda della depressione causata dal successo eccessivo, come Billy Joel, Sheryl Crow, Robbie Williams e Janet Jackson. Forse la morte di Whitney, al di là delle chiacchiere velenose che partiranno comunque, sta a ricordarci come questo nostro mondo votato al successo immediato e senza remore possa annullare più talenti di quanto ne produce: speriamo che in un futuro molto prossimo questa tendenza negativa possa arrestarsi, per il bene di tutti, artisti in primo luogo.