Istantanee in pillole dell’imminente Festival di Sanremo. Scorro le fruibilissime news di Google ed è davvero di tutto e di più.
Si legge che la valletta Ivana Mrazova non sa ancora parlare l’italiano, notizia che segue quanto riportato qualche settimana orsono, secondo cui la stessa nulla conosce di musica italiana e neppure le interessa, anzi – tranne Celentano – non le piace neppure.
La folgorante ventenne è la provocazione costruita a tavolino e rilegata in lussuosa brossura per un evento come Sanremo. La vedi e la tua lealtà è messa a dura prova, perché è talmente bella che non sei tu a riconoscerne la bellezza ma è la bellezza a riconoscere te e a rincorrerti in maniera quasi persecutoria.
E allora – direbbero i saggi – c’è qualcosa che non va perché con una così ricorre il caso della classica opera ornamentale, la cerbiattissima fatta per confondere le tue idee già abbastanza confuse e confinate nel semplicistico adagio greco-antico “kalos kai agathos” (per cui il bello è segno immediato e indefettibile di una bontà e virtù umana che viene da sé).
Un’onestà da minimi sistemi vuole che sia quanto meno lecito sospettare che la fanciulla in questione sia la classica avventrice portata lì solo perché bella o raccomandata, o forse sia bella che raccomandata con tanto di ricevuta.
Del resto fa tutto parte del rituale ad alta combustione dello spettacolo globale dove dire tutto e il contrario di tutto non è possibile bensì doveroso, è la deontologia, purché se ne parli.
Qualunque altra scelta, simile o differente dalla Mrazova avrebbe lasciato comunque un varco per il plauso o la polemica, per il consenso o per l’alterco.
Chi non si ricorda che persino una Ines Sastre – rea forse di vantare un portamento troppo bello – ebbe modo di essere liquidata come donna di ghiaccio?
Sanremo è in fondo l’emblema dell’Italia e del mondo. È il regno del possibile, del tutto opinabile, non importa se sia motivato o costruttivo. È possibile come è vero il dono della parola. Se questa esiste va usata a prescindere, come una necessità fisiologica, fosse anche solo per fregola.
Ed ecco il secondo spunto di polemica. Quella dei maldicenti di professione per cui lo sbilanciamento per il puro spettacolo dell’evento distoglie dalle canzoni e dalla musica – ossia quella che dovrebbe essere la “ciccia” dell’evento – perché le canzoni e la musica in Italia non esistono più da tempo, e quanto viene presentato a Sanremo è la media di quello che l’Italia delle sette note offre, ovviamente in negativo. Il tutto magari ascoltando poco e disattentamente le canzoni in gara e conoscendo poco o nulla di ciò che il circuito musicale offre fuori dal giardino del festivalone.
Ovviamente è una posizione del tutto superficiale priva di reali verifiche e attenzione al tanto che si muove in giro, ma è curioso notare come il maldestro movimento che sta intorno a canzoni e artisti, faccia del suo meglio per alimentare le speculazioni dei maldicenti.
Così la settimana scorsa si legge come uno dei giovani esclusi abbia contestato che la gara delle nuove proposte sia già stata assegnata a Erica Mou. Nei giorni a seguire si comincia a parlare invece della certezza già quasi raggiunta in ordine alla vittoria tra i big della urlatrice incallita Emma allevata nel recinto di “Amici”, fiorente scuola – salvo eccezioni misconosciute – dello strillo canoro ad alto tasso muscolare.
Negli ultimi due giorni si registra la seguente successione di eventi. Prima è l’adolescente Alessandro Casillo a essere segnalato come favorito in quanto presunto talento uscito dalla verdissima selezione “Io Canto” – autentica arma a doppio taglio nell’arcipelago impazzito dei talent – poi è di nuovo Erica Mou a essere segnalata in qualità di ultimo prodotto del dolce forno artistico di Caterina Caselli.
Sul fronte dei big, se si esclude l’autentico supplizio “work in progress” della partecipazione di Celentano, si registrano le rimostranze di Vasco Rossi per la canzone da lui scritta per Patty Pravo e a suo dire neppure ascoltata e quella di Marcella Bella che lamenta il fatto che Morandi le avrebbe garantito la partecipazione con parola da gentiluomo, poi rimangiata via sms.
Sanremo non è il ricettacolo di tutti i mali è solo un emblema, un passaggio a livello necessario per transitare nel percorso stagionale del music business tricolore e non, dove l’eterna sfida tra attenzione e celebrazione si ripete ciclicamente con la prima a soccombere regolarmente talvolta dopo valorose lotte.
Questa mattina prima di terminare l’articolo mi scorre sotto gli occhi la notizia della morte della povera grande Whitney Houston.
Come tanti, se non tutti – anche molti grandi – la vocalist afro-americana si è dibattuta come potevano le sue fragili forze in quella lotta senza esclusione di colpi dove su tutto sembra prevalere quella celebrazione (una morte leggendaria in vasca stile Marylin) che è già mito violento del presente e che tanto assomiglia al circo quotidiano delle piccole diatribe interne e delle maldicenze esterne. E in mezzo l’attenzione, per i pochi che intendono usarla, viene liquidata come ingenuità.
La sua esibizione a Sanremo con bis nel 1987 – cui mi capitò di assistere – è forse uno di quei grandi casi (e a livello mediatico molto più rari, come anche Jannacci e Martini nel 1989) in cui l’attenzione silenziosa e appassionata ebbe il sopravvento con limpidezza e, ironicamente, costrinse al silenzio ammirato un fautore della prosopopea celebrativa come Pippo Baudo.