Alla scuola di scrittura “Flannery O’Connor” del Centro Culturale di Milano, per mia fortuna, non c’è il banco degli asini. Se ci fosse, dovrebbero occuparlo i signori Silvestre, Sala e Palmosi che, a vario titolo, sono responsabili, o meglio colpevoli, delle parole di “Non è l’inferno”, la canzone cantata a Sanremo da Emma Marrone, che Mario Luzzato Fegiz ha definito: “uno dei testi più brutti e confusi mai ascoltati al Festival”.
Non ho sufficienti competenze per confutare quanto ipse dixit e quindi mi proverò solo a tentar di capire perché sia davvero una pessima prova d’autore.
Nelle aule del Centro, noialtri garzoni della letteratura, si viene bacchettati soprattutto su tre cose: i personaggi, la loro voce e la scrittura con la quale li si descrive.
Riguardo i personaggi ci si chiede che siano ben definiti, credibili o almeno plausibili. La “voce”, come si dice in gergo, è tema più complesso poiché si tratta di attribuire a ciascuno una propria individualità fatta di lingua, azioni e piccoli gesti. Quanto invece alla scrittura ci si accontenta che sia in italiano.
Cominciamo, allora, a considerare la costruzione del personaggio. Nel nostro caso la voce narrante è un uomo (ho giurato fede mentre diventavo padre) ultraottantenne (due guerre senza garanzia di tornare) con un figlio bamboccione (che a trent’anni teme il sogno di sposarsi) e ormai ridotto in miseria (mi ritrovo a non tirare a fine mese).
Già solo affidare l’interpretazione di un tale soggetto a una ragazza di nemmeno trent’anni mi pare una missione impossibile anche per la Meryl Streep dei tempi d’oro, ma non voglio essere troppo critico e dico che ci può stare: sei meno, meno.
I problemi iniziano quando gli autori provano a “dare voce” a questo pensionato, probabilmente invalido di guerra (ho dato il sangue per il mio paese), rimasto senza tetto (cosa devo fare per pagarmi dove stare).
Il poveretto prima se la prende con Monti (Se tu hai coscienza guidi e credi nel paese) come neanche nel più periferico dei Bar Sport, poi con la Camusso e l’articolo 18 (per un giorno di lavoro c’è chi ha ancora più diritti di chi ha creduto nel paese del futuro) e infine vomita una sfilza di banalità melense (Ho pensato a questo invito non per compassione ma per guardarla in faccia e farle assaporare un po’ di vino e un poco di mangiare). E qui siamo nell’insufficienza piena.



Lo sconforto vero arriva quando si guarda alla scrittura. Ogni frase è confusa, sconclusionata e zeppa di errori madornali. Basti, come esempio, questa: Se qualcuno sente queste semplici parole, parlo per tutte quelle povere persone che ancora credono nel bene.
L’ipotetica (Se qualcuno sente queste semplici parole) è lasciata senza conclusione e dopo la virgola cambia il soggetto (parlo per tutte quelle povere persone); roba che quelli dei test INVALSI ridono ancora adesso.
Insomma, un disastro: personaggio poco credibile, dotato di una voce banale, raccontato in un italiano scarso.
Ma allora com’è che io mi prendo le bacchettate e questi, che scrivono così “brutto e confuso”, vanno a Sanremo? Non ho una risposta; se ce l’avessi, farei il paroliere di successo (notare la chiusura perfetta dell’ipotetica con tanto di virgola che è roba da intenditori).
A ben vedere, però, un pregio questo testo ce l’ha: suona bene. Se non si fa, come io faccio, gli spocchiosi e non si sta a spaccare il capello in quattro, ci si accorge che rotola bene nell’orecchio.
E’ un po’ come il gramelot inglese di Celentano (prisencolinensinalciusol): non dice niente ma è piacevole da ascoltare. Emma, che è una brava cantante, riesce a dare grinta e passione anche a parole brutte e vuote; a parole che sono come bronzi che risuonano e cembali che tintinnano. Bei suoni pieni di niente. Ci vuole del talento anche per questo.



(Franco Molon)

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