Era il 1978, il punk sembrava ormai destinato a dettare legge e gli assoli di chitarra a scomparire. Il contesto era così scoraggiante che quando i Van Halen firmarono per la Warner Bros il direttore pubblicitario si sentì in dovere di mettere le mani avanti: “È il punk rock la musica che funziona oggi. In realtà non abbiamo molte speranze per voi ragazzi. Ci piace la vostra musica, ma dubitiamo che vi porterà da qualche parte”.
Eppure, il 10 febbraio 1978, quando fu pubblicato il disco Van Halen (che avrebbe venduto più di 10 milioni di copie solo negli USA, raggiungendo lo status di disco di diamante), il rock subì una scossa inaspettata: un sound incredibilmente moderno che spiazzò i contemporanei, un’irruenza che prorompeva dagli amplificatori e dalle chitarre modificate di un musicista alquanto bizzarro, Eddie Van Halen, e un’esuberanza sfrontata e contagiosa che si irradiava dal carismatico vocalist, David Lee Roth, in arte Diamond Dave.
Con Eddie Van Halen, che vinse per 5 anni consecutivi il premio di Guitar Player per il miglior chitarrista rock, la figura del guitar hero tornò improvvisamente in voga. Le acrobazie virtuosistiche di Eddie, nonché il suo suono ricco di armonici e di sustain (il celebre “brown sound”), segnarono un punto di svolta sia per i chitarristi futuri, sia per le case produttrici di strumenti e amplificatori, le quali si prodigarono per riprodurre le caratteristiche del suo sound.
I Van Halen non erano però solo Eddie Van Halen, alla voce c’era un personaggio dal grande carisma dotato di un timbro caldo e provocante. David Lee Roth era un autentico showman, un istrione da palcoscenico che introdusse nella band quella dimensione spettacolare e coreografica che rese i loro concerti degli eventi unici.
Fra Dave e Eddie si creò un’intesa pressoché perfetta e fu il loro affiatamento, sostenuto dall’eccellente sezione ritmica composta da Alex Van Halen (batteria) e Michael Anthony (basso), a conferire alla band la propria identità: un hard rock spontaneo, profondamente radicato nelle radici blues, esuberante, irruento e ironico al tempo stesso.
Con David Lee Roth i Van Halen produssero sei album, vendettero milioni di dischi e guadagnarono una fama internazionale che li portò a esibirsi in tutto il mondo. Fu il cosiddetto periodo d’oro, che però si interruppe bruscamente: una serie di incomprensioni e divergenze creative andarono infatti accumulandosi negli anni, compromettendo sempre di più il rapporto fra Eddie e Dave, il quale nel 1985 decise di abbandonare la band. Il cantante fu sostituito da Sammy Hagar e i Van Halen proseguirono a riscuotere successi, ma i fan continuarono sempre a rimpiangere il periodo con Roth e a sperare in una reunion.
Il 1996 sembrò a tutti l’anno buono, quando la band annunciò che avrebbe registrato 2 brani (peraltro di eccellente fattura) con lo storico cantante per l’uscita della raccolta Best of volume I. Tuttavia la collaborazione non proseguì, ma piuttosto inasprì i già compromessi rapporti fra il chitarrista e il carismatico cantante.
I due si riavvicinarono undici anni dopo, quando si pensò di richiamare Roth per un tour celebrativo negli Stati Uniti in occasione dell’inserimento del gruppo nella Rock and Roll Hall of Fame. Nessun nuovo album comunque fu annunciato, l’ultimo disco interamente registrato in studio dai Van Halen risaliva al 1998 (III, con Gary Cherone alla voce) e molti temevano che l’attività discografica della band fosse oramai conclusa.
Tutto questo fino al 5 agosto 2010, quando dalla Warner Bros arrivò uno dei comunicati più attesi della storia del rock americano: “Allo stato attuale i Van Halen sono in studio e stanno registrando un album con Roth. L’uscita è prevista per il 2011”. Con poco più di un mese di ritardo rispetto alle previsioni, il nuovo disco della band, A different kind of truth, è finalmente uscito: 27 anni dopo i Van Halen sono dunque tornati a incidere con il loro storico vocalist, anche se non si può parlare di una reunion completa, visto che il bassista Anthony è stato nel frattempo allontanato e sostituito da Wolfgang, il figlio di Eddie.
Il disco, come confermato anche da Roth, si basa in gran parte su canzoni “originalmente scritte 30 anni fa, quando la band era insieme agli inizi”, un’operazione di recupero del materiale inedito che viene rielaborato e trasformato per questa nuova incisione. Chi ha una certa familiarità con i bootleg dei Van Halen potrà riconoscere in questo disco una serie di canzoni che la band registrò in studio prima dell’esordio discografico ufficiale, o che eseguì durante i concerti degli anni ’70 e ’80: ad esempio She’s the woman, Blood and fire, Bullethead, Down in flames (nel nuovo disco Tattoo), Let’s get rockin’ (rinominata Outta space), Big trouble (rinominata Big river), Beats workin’ (rinominata Put out the lights) e il ritornello di Vodoo queen (rielaborato in As is).
Le canzoni non vengono riprese in maniera identica alle rispettive versioni originali, sono rivedute, ricomposte, talvolta utilizzate solo in parte e inserite in nuovi brani, come in un collage. L’operazione pare più che riuscita: i pezzi sembrano infatti guadagnarci, sia dal punto di vista della raffinatezza compositiva, sia da quello della confezione del testo verbale.
Questo riutilizzo del materiale passato ha fatto storcere la bocca ad alcuni che avrebbero preferito una serie di inediti per così dire “puri”. In realtà tali obiezioni, fomentate dall’ex cantante Sammy Hagar che ha voluto minimizzare il nuovo lavoro della sua vecchia band, non sembrano particolarmente azzeccate se pensiamo che per i Van Halen è abbastanza abitudinario riprendere vecchie canzoni inedite, rielaborarle e poi pubblicarle in nuovi dischi (basti citare gli esempi di House of pain, incisa in una demo del 1977, rielaborata e pubblicata nel 1984 e di Vodoo queen, ricomposta e incisa nel 1981 come Mean street). Allo stesso tempo, la tendenza a riutilizzare, parzialmente o in toto, materiale precedente per nuove creazioni è un fenomeno abbastanza tipico della composizione musicale, che abbraccia tutti i generi, popolari o colti, e che si può ritrovare in molti altri musicisti e compositori.
Il processo di rielaborazione non sembra aver intaccato affatto la freschezza dei brani, i quali si presentano come delle creazioni genuine, dense di vitalità ed entusiasmo. Fin dal primo ascolto emerge chiaramente che i Van Halen non hanno perso neanche una briciola di quell’esuberanza che li contraddistingueva negli anni d’oro: A different kind of truth è un concentrato di adrenalina e potenza allo stato puro. Nessuno spazio dedicato a ballate (care soprattutto al periodo di Hagar) o a improbabili deviazioni stilistiche (quali i divertenti siparietti jazz, folk o a cappella del periodo di Roth): si tratta di 13 brani di hard rock puro vecchio stampo, con una vena anche leggermente più heavy del solito, che affiora soprattutto in brani come China Town, As is, Honeybabysweetiedoll e Bullethead. Con i meno aggressivi e comunque ben congeniati You and your blues, Blood and fire, Tattoo, The trouble with never e Beats workin’, il rock si fa lievemente più melodico, soprattutto in fase di ritornello, ma sempre senza addolcirsi troppo e concedere facili lusinghe all’orecchio.
Tutti i pezzi dell’album meritano un ascolto attento; qui, per esigenze di brevità, se ne citano solo alcuni: Blood and fire, che con il suo tipico riff vanhaleniano sembra destinato a diventare un classico della band, China Town, un brano spinto ad altissima velocità e arricchito da acrobazie chitarristiche al fulmicotone che ricordano i vecchi tempi, Beats workin’, un pezzo spavaldo costruito con grande maestria, The trouble with never, un funk rock ironico dal sapore hendrixiano, e infine Stay frosty, un blues rock acustico che si trasforma in una vera e propria esplosione di energia e divertimento, degno erede della vecchia Ice cream man incisa nel disco di debutto.
Da non trascurare poi il singolo Tattoo, la canzone uscita il 10 gennaio con cui la band si è ripresentata al pubblico dopo i tanti anni d’assenza. Un bel brano, forse leggermente più melodico degli altri, ma in cui la chitarra di Eddie non abbandona il suo sound aggressivo e arrembante. Al breve attacco corale fa seguito un ruggito di chitarra più eloquente di qualsiasi parola: i Van Halen sono tornati e hanno conservato tutto lo smalto di un tempo.
“A different kind of truth” è davvero una bella sorpresa. Una reunion di questo tipo è sempre un’operazione rischiosa: i paragoni con i dischi storici sono inevitabili e, visto il termine di confronto, si rischia sempre di deludere le attese. Nonostante ciò, chi si aspetta un branco di vecchietti nostalgici sull’orlo della sessantina che giocano a fare i ragazzini dovrà ricredersi: è uno dei dischi rock più genuini e autentici prodotti negli ultimi anni e non sfigura affatto rispetto ai lavori del periodo d’oro.
I Van Halen hanno ritrovato quell’entusiasmo e quella voglia di fare musica che animava le loro prime canzoni e probabilmente non è un caso che tutto ciò sia avvenuto quando Eddie e Roth hanno riunito le forze dopo anni di screzi. Come ha scritto Matthew Wilkening, A different kind of truth “dimostra che il feeling fra Eddie e Dave continua a essere qualcosa di speciale, di magico”.