Per un momento, cercate di lasciare perdere tutte le polemiche, i gossip, le esagerazioni mediatiche che il nome di Sinéad O’Connor inevitabilmente porta con sé. Non che la cantante irlandese non ne abbia fatte e dette di tutti i colori, cosa che peraltro continua a fare. Ma dimenticatele, per favore. Ascoltate invece la sua voce, quando canta. Come diceva qualcuno, bisognerebbe avere un cuore di pietra per non commuoversi al suono di una delle voci più belle ed emozionanti che la musica moderna abbia mai espresso. In una carriera che si ricorda solo per gli scandali, musicalmente anche i dischi della O’Connor hanno, tranne rare eccezioni (il primo disco, “The lion and the Cobra”, il mini cd “Goaspel Oak”, “Sean-Nós Nua” dedicato alla musica irlandese tradizionale) poco da farsi ricordare.



Le sono sempre mancati infatti un produttore e un repertorio all’altezza. Certo, Nothing Compares to U, scritta per lei da Prince ai suoi esordi, rimane ancora oggi una delle incisioni più intense degli ultimi venticinque anni, ma spesso la sua straordinaria capacità vocale è andata dispersa in registrazioni appunto non all’altezza. La voce di Sinéad merita ben altro. È capace di esprimere una gamma di emozioni potentissime: il suo sussurrato, le improvvise devastazioni, le aperture celestiali sono il racconto vocale di un’intensità che ha pochissimi paragoni fra le cantanti bianche di ogni tempo. È il classico caso, la cantante irlandese, di colei che può cantare l’elenco del telefono e far breccia ugualmente. Nella sua voce, la fragilità di un personalità avvolta da problemi psichici non da poco, da sofferenze interiori che non è mai riuscita a superare se non nell’eccesso di suoi certi comportamenti e dichiarazioni, e naturalmente quando ha la possibilità di cantare. Soprattutto, in questa voce, il senso di una perdita, una malinconia a tratti insopportabile, la mancanza di un qualcosa che tortura cuore e anima.



Si potrebbe dire che Sinèad O’Connor è una persona a posto con se stessa solo quando si esprime nel canto. Come una sorta di magia, come una guarigione dell’anima e del cuore, la sua voce si eleva su vertici che suggeriscono l’infinita incompletezza dell’essere umano. Il suo ultimo disco, “How About I Be Me (and You Be You)?” è a metà strada tra le opere incompiute del suo passato e quelle migliori. È un disco apparentemente semplice, prodotto dal suo storico primo produttore degli esordi, e contiene alcune delle cose più belle da lei incise e altre meno. Non a caso è una cover, come al suo esordio, il brano migliore. Queen of Denmark del cantautore americano John Grant è una ripresa straordinariamente bella di un brano già straordinariamente bello di suo. La O’Connor lo interpreta con la rabbia e l’urgenza che solo lei sa mettere in una canzone che manda a quel paese un amore irrimediabilmente finito, e che comincia con versi memorabili: «Volevo cambiare il mondo, non sono nemmeno capace di cambiarmi le mutande».



L’iniziale 4th and Vine è una sorta di rock steady incalzante con una performance vocale serrata come solo lei sa regalare. Le cose migliori, in questo disco, sono le ballate ad esempio Reason With Me, andamento elettro acustico dai sapori folk con un meraviglioso accompagnamento pianistico a sostenere la tensione del pezzo. È una malinconia dolorosa quella che la O’Connor comunica in brani come questo, o come Old Lady aperta da un piccolo carillon e che poi si adagia su una ritmica serrata e dura.

Le campane di una chiesa che aprono Back Where You Belong suggeriscono il desiderio di una fuga in un ambiente antico, che non esiste più: voci di bimbi in sottofondo, innocenza perduta e spettacolare interpretazione vocale. C’è ancora l’antica rabbia di Sinéad da qualche parte e la si ritrova nella terribile Take Off Your Shoes, in cui si rivolge ai sacerdoti irlandesi accusati di pedofilia, un problema che ha spaccato la nazione: «Invoco su di voi il sangue di Gesù Cristo» dice la cantante.
E se The Wolf Getting Married è una ballata folk non sorprendente (così come non sorprende I Had a Baby) è il pezzo finale a dare la statura di tutto questo lavoro, presentandosi come una delle cose più belle mai incise dalla cantante. V.I.P., che sta proprio per “Very Important Person”, i personaggi del mondo dello spettacolo, quelli insomma che sono sempre in televisione, magari anche quelli della politica, è una intensa riflessione su cosa costituisce davvero la grandezza dell’essere umano.

Tutta costruita sull’incredibilmente espressiva voce della O’Connor con un tenue sottofondo di tastiere, è una denuncia, ma anche una preghiera. Non a caso finisce con la sola voce della cantante che recita il segno della Croce. «Che cosa è un Vip, abbiamo il coraggio di andare al nostro party o preferiamo stare al tempo con la vanità, dimmi cosa è un vero Vip» si chiede Sinéad. «E chi siamo per dare questo nome, quando non sappiamo riconoscere le menzogne degli altri, quando facciamo fatica ad alzare un dito per aiutare i nostri fratelli e le nostre sorelle (…) l’artista ha sempre espresso i bisogni della gente, adesso siamo nutriti dal diavolo, nelle ombre di Mtv». Straordinaria.

«Quando saremo davanti al cancello (del Paradiso) non ci sarà make up sul viso e non ci saranno borse di Vuitton e scarpe di Manolo e Lui ti chiederà, hai amato solo te stesso o hai combattuto per qualcosa oltre alla voglia di successo». Concludendo con il monito: «Un volto che non è mai stato baciato o non lo sarà mai, ti mostrerà che cosa è davvero un Vip». Amen.