È caduto non molti giorni fa, il 16 febbraio, il trigesimo della morte di Gustav Leonhardt, poliedrica figura di tastierista, direttore d’orchestra, musicologo, uno dei padri della musica antica.
Il primo concerto italiano e uno degli ultimi della sua vita li tenne nella chiesa di San Carlo a Brescia, sull’amato organo Graziadio II, per il Festival Antegnati, di cui era ospite quasi ogni anno.
Introspettivo, taciturno, aristocratico. Lo Sviatoslav Richter dell’Early music. La sua sobrietà confinava con la durezza. «Dottor Leonhardt, le sue interpretazioni ci appaiono eccessivamente castigate», gli sussurravano. «Sono gli ascoltatori moderni a dover cambiare orecchio», replicava senza fare una piega. Partecipare ai suoi recital significava accostarsi in punta di piedi alla confessione di private passioni. Articolazioni nettissime, accurate differenziazioni ritmiche, superiore sprezzatura, tinte parche, profluvio di colorature, altero spirito geometrico, infallibile senso architettonico, spietato virtuosismo mentale. Programmi concertistici variegati, stipati di gemme, primizie, rarità.
A Händel, autore da lui considerato plateale, anteponeva qualche oscuro maestro fiammingo; alle perle di Scarlatti preferiva anonime pietre semidure (quarzi, ossidiane). Re delle tastiere storiche, leone del clavicembalo, austero virginalista, organista col cilicio. Nessuna emozione traspariva dal suo volto. Sdegnoso, anacoretico, riluttante come un prisma; o si trattava di sottigliezza e contemplazione?
Amava un suono levigato, cesellato, intrecciato in prospettive infinite e illusorie alla Escher. Gentiluomo barocco catapultato nel XX secolo. Ogni tanto, qualche fenditura si apriva nella sua corazza protestante: impazziva per la velocità automobilistica (Alfa Romeo); a Maranello spasimò al volante d’una Ferrari; interpretò il venerato J.S.B. in un vecchio film.
Il pubblico addolciva la sua severità düreriana: nel 2001 regalò, sempre a Brescia, alcune improvvisazioni, l’anno seguente firmò autografi, moltiplicò gli inchini, sul suo volto spuntò perfino l’ombra di un (timido) sorriso. «Al termine dei concerti, dopo i primi scroscianti applausi – racconta Claudia Franceschini, sua assistente ai registri – mi raggiungeva, mi stringeva la mano, mi esprimeva gratitudine per l’assistenza. Lui, il Grande Vecchio, ringraziava me! Il suo organo prediletto era l’Antegnati di San Giuseppe; poi, il Meiarini-Antegnati di Santa Maria del Carmine. Una cosa lo infastidiva: non capiva perché non si potesse iniziare puntualmente, ma si dovessero aspettare altri cinque minuti. Allo scoccare delle 21, guardava l’orologio con nervosismo; alle 21.05 precise iniziava, perplesso».
La massima emozione ci colpiva a spettacolo concluso, quando il suo strumento taceva e lo spazio sprofondava nel silenzio. A cosa avevamo assistito? Una Sagrada Familia di suoni, che risvegliava dalla tiepidezza i nostri animi addormentati? Una materia sonora baluginante, implacabile, urlante nel buio? Dietro a ogni esistenza espressa su pentagramma da lui eseguita, spuntava una natura morta, un memento meditativo. Sontuose e livide meraviglie. Una sorta d’aureolazione sonora, come una specie di luce, proveniva dalla balaustra. Sotto le sue dita i brani si animavano: Leonhardt non scopriva le cerniere che legano le sezioni di una composizione, ma le toccava, le lisciava, proprio come gli emigranti di un tempo, una volta che era data loro la possibilità del ritorno, baciavano la terra su cui erano nati. Come una lenta e ripetuta carezza della coscienza.
«Amo il contatto con la corda del clavicembalo, la sento», diceva. Questo pudore spiega la sua monocromia timbrica, un sovrano bianco-nero opposto al 3D d’altri colleghi. Con lui le crisalidi delle etichette (filologia, autenticità, Barocco) cadevano a terra, ne avvertivamo appena il fruscio.
Canuto, spigoloso, sempre elegante; pugno d’ossa e di nervi, lunghe mani diafane, naso aquilino su corpo d’airone, planava da un organo all’altro. Magister Gustav, perché non ti abbandonavi all’estasi?
Leonhardt come Beethoven: Ludwig, sul letto di morte, rimpiangeva di non poter bere un buon vino donatogli: «Peccato, troppo tardi». Gustav, da due anni alimentato a soli cibi liquidi per un’invasiva operazione chirurgica, leggendo i menu esposti dai ristoranti confidava: «Che bello… un’ultima cena…».
Leonhardt all’amico Stefani, come Cézanne al mercante Vollard: «Caro don Tullio, lavoro accanitamente, intravedo la Terra Promessa». Il bis dell’ultima sua esecuzione pubblica è stata la Variazione finale delle “Goldberg”. Bach l’insondabile riaccoglieva nelle sue braccia Leonhardt l’enigmatico.