A chi ha visto ed apprezzato La Chiave di Sara di Gilles Paquet-Brenner si suggerisce un libro di Vincenzo Ramòn Bisogni “Joseph Schmidt, The Pocket Caruso – Un tenore in fuga” (Zecchini Editore). Anche se non si sa nulla di musica e di tenori.
Il libro è il racconto della vita di Joseph Schmidt, chiamato “The Pocket Caruso” perché minuto e di piccola statura. Ebbe grande successo dalla seconda metà degli Anni Venti in vari teatri dell’Europa centrale e della Francia e morì, di stremi, in Svizzera, in un campo di internamento, nel novembre 1942.
Con Caruso aveva in comune essenzialmente il fatto di essere, in gran misura, autodidatta. A differenza, però, del tenore italo-americano era essenzialmente un tenore lirico con una tessitura molto alta (alla Fritz Wunderlich od alla John Osborn), non un tenore “spinto”. Inoltre, mentre Caruso basava la propria fama sul carisma che aveva in teatro, e su come i suoi “do” acuti facevano tremare i lampadari, il piccolo e mingherlino Schmidt divenne famoso per come utilizzò, con scaltrezza e sapienza, la radio: gli ascoltatori, basandosi sulla sua voce, pensavano che fosse un gigante in grado di interpretare ruoli tra i più difficili di Meyerbeer , Rossini, Donizetti e Verdi. Aveva un repertorio vastissimo: dall’operetta di Lehàr al Puccini più ardito – quello de La Fanciulla del West.
Ha anche lasciato, dispersa di qua e di là, una ricca discografia. Attenzione, il suo era un pubblico principalmente della radio e dei teatri di lingua tedesca; quindi, gran parte di ciò che è rimasto sono arie e romanze nelle traduzioni ritmiche in tedesco, un vera chicca per i musicologi.
Ma la breve vita del “Caruso tascabile” quale raccontata da Bisogni non è necessariamente un libro per musicologi. Nato in una regione di confine di quello che fu l’Impero Austro-Ungarico, trasferitosi a dieci anni in un paesino di quella che oggi è l’Ucraina, approda in Ungheria per due anni e successivamente raggiunge a Berlino dove dai maestri cantori delle Sinagoghe inizia periodi di studio professionale. Fa anche il servizio militare e dopo il congedo la sua vita d’artista si divide tra le Sinagoghe e la casa discografica Parlophon. A 25 anni comincia una carriera sui palcoscenici dell’operetta, mentre alla radio interpretava ruoli più pesanti ed è protagonista di fil musicali di successo.
La carriera viene bruscamente interrotta nel 1933 (quando aveva 27 anni) a ragione della “notte dei cristalli” e delle leggi razziali. Da allora comincia la fuga. Prima in Austria dove, sino al 1926, alterna teatro, registrazioni discografiche e cinema (è minuto ma di bella presenza ed ottimo attore). Riesce a fare tournée a Londra ed in Palestina, nonché una molto lunga in Svizzera, Romania, Bulgaria, Grecia, Turchia, Francia e Benelux. Dopo l’annessione dell’Austria al Reich e la proibizione della vendite dei suoi dischi e della distribuzione dei suoi film (nonché l’annullamento di concerti programmati a Vienna, Francoforte e Berlino), si stabilisce a Bruxelles, contando sulla neutralità del Regno dei Belgi.
Diventa tenore di punta de La Monnaie ed una sua Bohème gira per tutti i teatri importanti del Belgio. Nel settembre 1939, non sentendosi più sicuro in Belgio, si trasferisce a Lione nella Francia di Vichy, mainiziano anche lì le discriminazioni. Lo raggiunge la compagna con il loro figlio, si sposano e tenta di scappare in Svizzera. Al terzo tentativo, passa la frontiera ma viene intercettato come ebreo ed internato in un campo di lavoro nei pressi di Zurigo. Stremato ed ammalato, muore in piccolo albergo nei pressi del campo.
Il libro mostra uno spaccato poco noto di un’Europa anti-semita anche nei Paesi che mostravano maggiore tolleranza, di una Svizzera che temendo di essere anche essa preda dei nazisti, mette in cassaforte le ricchezze degli ebrei, ma considera “abile ai lavori pesanti” un piccolo e gracile tenore che viene ospitato nella locanda dove muore principalmente perché la proprietaria ricordava i suoi film ed i suoi dischi. In beve, un’Europa crudele. Libro da leggere per non dimenticare.