Un vecchio slogan pubblicitario della Columbia Records, negli anni Sessanta, proclamava: “Nobody sings Dylan like Dylan does“. Cioè: nessuno canta le canzoni di Bob Dylan come lo fa Bob Dylan. Il fatto era che sin dall’inizio il successo commerciale del cantautore americano era stato dato non da una sua interpretazione di un proprio brano, ma da quella di altri artisti. Nella fattispecie, la canzone Blowin’ in the Wind portata al numero uno delle classifiche dalle angeliche voci del trio Peter, Paul and Mary. Negli anni il fenomeno avrebbe aggiunto proporzioni ancor più vistose, complice prima la sua ex fidanzata Joan Baez, che nel 1968 incise un intero doppio ellepì di soli brani di Dylan e ancor più in modo evidente dal numero uno in classifica della cover di Mr. Tambourine Man dei Byrds, destinata a diventare un successo mondiale.



Negli anni, Bob Dylan, al pari dei Beatles, sarebbe diventato uno degli artisti più “coverizzati” cioè inciso da altri, della storia. Non solo le incisioni singole apparse qua e là nei dischi di artisti vari, ma dozzine sono le raccolte interamente dedicate alle sue canzoni. Chi scrive, nel 1991, in occasione dei 50 anni dell’artista, realizzò una di queste raccolte per la stessa Columbia Records, ottenendo in esclusiva una incisione mai pubblicata prima da Bruce Springsteen, tanto per dirne una (“United Artists for the Poet”). E questo non solo per la bontà oggettiva delle sue canzoni, ma anche perché la sua voce non è mai piaciuta alle masse. Pochissimi infatti i successi da lui portati nella top five nel corso di una carriera ultra decennale.



Per molti, tanti, Dylan non ha mai saputo cantare e la sua voce nel migliore dei casi assomiglia a quella di un cane delle praterie. Quindi, altro che slogan pubblicitario della Columbia: per tutti costoro, la reale bellezza di una canzone di Bob Dylan si capisce solo se la canta qualcun altro e non l’autore stesso. È un argomento che qui non dibatteremo: la voce di Bob Dylan non è bella nel senso normalmente dato al significato di questo termine (dipende poi da cosa si intende per bellezza: se la bellezza è espressione della realtà nella sua più profonda partecipazione, la voce di Bob Dylan è la voce più bella di tutti i tempi), ma è certamente una delle più espressive ed emozionanti di tutti i tempi.



Tornando alle canzoni, il mastodontico cofanetto (“Chimes of Freedom, The songs of Bob Dylan”) di ben quattro cd contenenti interpretazioni di brani di Bob Dylan che esce in questi giorni, dimostra invece l’impatto tutt’oggi imprenscindibile e senza paragoni delle canzoni di Dylan sulla scena mondiale. È sempre stato così (i Beatles una volta dissero: Dylan mostra la strada) e fa piacere vedere che ancora lo è. La raccolta, pubblicata in occasione dei  50 anni di Amnesty International che coincidono con i 50 anni dal primo disco di Dylan, è un testimonianza eccellente di tutto questo.

Le canzoni di Dylan si prestano a riletture che variano veramente in tutti gli angoli possibili della musica: qua dentro troverete jazz, hip-hop, reggae, blues, hard rock, elettronica, musica classica moderna, folk, country. E la cosa sorprendente è che tutte queste musiche erano già presenti nella concezione originale del cantautore americano, segno di una capacità di esplorare la musica a ogni suo livello che ha davvero qualcosa di unico nel campo della musica rock. Prendiamo la straordinaria rilettura che Michael Franti fa di Subterranean Homesick Blues (1965): ne deduciamo che Bob Dylan è stato il primo artista hip-hop della storia. E non era neanche un nero.

Ma questo è solo un esempio di quello che troverete qua dentro. Certo, ci sono i soliti noti e non poteva essere altrimenti (Joan Baez, ad esempio, e poi Jackson Browne, Pete Seeger, Patti Smith), ma la stragrande maggioranza sono giovanissimi sconosciuti, almeno qui in Italia. E da loro arrivano le cose più belle, segno di una vitalità della scena rock che è ben lungi dall’essere morta come qualcuno va in giro a dire.  Prendete ad esempio i Silverstein che si scatenano con una furiosa e punk Song to Woody degna dei primissimi Clash. Così come stupisce la brava Miley Cirus (l’Hanna Montana dei telefilm) con  una pregevolissima You’re Gonna Make Me Lonesome When You Go.

Certo, ci sono anche delle delusioni, ad esempio la sempre melensa Adele che, colta qui dal vivo, ha la stessa capacità di emozionare di una mozzarella messa sotto il sole di agosto (Make You Feel My Love) o Sting, che fa un compitino senza lode e infamia in Girl from the North Country, o anche il sinth-pop banalotto di Ximena Sarinana in I Want You. Per non dire della voglia di stupire ad ogni costo di uno scialbo Elvis Costello che non sa più cosa inventarsi (Licence to Kill).

Le sorprese allora sono altrove. Le troviamo nella rude e viscerale Blind Willie Mctell che fa l’ex chitarrista dei Rage Against the Machine, Tom Morello; nella superba rilettura jazz sofferta di Simple Twist of Fate che fa Diane Krall; nel rock appassionato e incazzoso della sempre meravigliosa Sinéad O’Connor in Property of Jesus; nel divertente sound latino dei Mariachi El Bronx che rileggono Love Sick come se ci trovassimo sul Rio Grande; nella voce grandiosa, degna del padre Bob, di Ziggy Marley che riporta Blowin’ in the Wind alla sua urgenza originaria; nella “negritudine” sconfinata di Seal che in coppia con il guitar hero Jeff Beck innalza altissima Like a Rolling Stone. E la rabbia senza fine dei Rise Against in Ballad of Hollis Brown.

E ancora: la malinconia eterea dei My Morning Jacket in You’re a Big Girl Now; la sapienza folk di un commovente Mark Knopfler in Restless Fareweell; il rock stoner dei Queens of the Stone Age in Outlaw Blues; la forza popolare di una corale Lay Down Your Weary Tune di Billy Bragg; l’ineccepibile purezza da autentica “mama Africa” di Lay Lady Lay così come la propone Angelique Kidjo; la strapotenza live dei sorprendenti Sugarland in Tonight I’ll Be Staying Here with You; la classe british di Bryan Ferry in una romantica Bob Dylan’s Dream; l’epica punk dei Bad Religion in It’s all Over Now Baby Blue; la moderna musica classica del Kronos Quartet con Don’t Think Twice, It’s All Right; la sofferenza folk di Lucinda Williams in Trying to get to Heaven. E molto altro ancora.

Alla fine spunta anche lui, il padrone di casa: Chimes of Freedom, ripresa dal disco che la conteneva nel 1964, è la firma a suggello di Bob Dylan, l’uomo che ha spalancato il mondo alla forza rivoluzionaria del cuore e dello spirito che è la musica rock. “La musica di Bob Dylan è eterna” dice uno dei curatori del progetto “perché cattura in modo unico il nostro struggimento, la nostra gioia, la nostra fragilità e il nostro coraggio. Pochi artisti come lui riescono ad avere una tale profondità”. L’intero ricavato del cofanetto va dunque ad Amnesty International, e tutti gli artisti coinvolti hanno dato il loro contributo gratis. Essendo Amnesty anche l’unica organizzazione per i diritti umani che non ha mai fatto scelte di campo ideologico e che ancora oggi difende la libertà ovunque essa sia soffocata, se ci aggiungiamo anche la bontà del prodotto musicale, diremmo che son soldi davvero ben spesi.

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