Lucio Dalla è morto. E il sito ufficiale dei frati francescani di Assisi, la patria di san Francesco, è stato il primo a riportare la notizia della scomparsa del cantante di Bologna. La voce della sua morte, infatti, prima ancora che ritrovasse riscontri ufficiali o le news dei grandi siti di informazioni, è apparsa sul portale sanfrancescopatronoditalia.it, il sito che racconta l’attività appunto dei frati di Assisi. La notizia poi è stata velocemente ripresa da alcuni utenti di Twitter che hanno cominciato a metterla in giro. Ma come mai la morte di Lucio Dalla, storico cantante e musicista con una carriera decennale alle spalle e frequentazioni anche politiche certamente lontane dalla Chiesa, veniva riportata per prima da questo sito? La spiegazione sta nel fatto che, come sempre nei casi di artisti che sanno mantenere riservatezza e privacy, della vita personale di Lucio Dalla si sapeva ben poco. Certo, alcune sue canzoni ricche di sentimento religioso erano note; così come alcune sue esplicite dichiarazioni, come la famosa intervista  uscita nel 2009 in cui si diceva non solo cristiano, ma anche praticante: “Non perdo una Messa” aveva detto in quell’occasione.
IlSussidiario.net ha voluto parlare con i frati di Assisi, in particolare con padre Enzo Fortunato che era quello che aveva il rapporto personale più stretto con lo scomparso musicista. Il frate ci ha risposto chiedendo di rispettare la riservatezza che Lucio Dalla aveva sempre dato alla sua vita e in particolare al suo rapporto con questi religiosi. Ha però rilasciato il suo commento a quella lunga amicizia che aveva contrassegnato gli ultimi anni della vita di Dalla: “Noi frati di Assisi” ci ha detto “abbiamo colto in Lucio Dalla una grande attenzione spirituale che si esprimeva nella musica e nella ricerca silenziosa di Dio. Ad Assisi veniva per accordare questi due elementi”. Ha poi aggiunto: “Gli artisti, come il fratello Lucio Dalla, riescono ad esprimere con la musica la grande tensione spirituale presente in ogni uomo. Penso al ‘Francesco’ di Alda Merini musicato da Dalla e alle canzoni: Gesù Bambino, Se fossi un Angelo e Henna”.



Sul sito dei frati è stato pubblicato oggi un bellissimo racconto (“Francesco fammi volare”) scritto appositamente da Dalla per loro nel maggio 2010, che parla del suo rapporto personale con San Francesco. Abbiamo ottenuto il permesso di riprenderlo per i lettori del Sussidiario.

Mi svegliai che era appena l’alba ed ero in una cella del convento di Assisi, pronto per andare alla messa, ed erano quasi le 6.00 quando arrivai nella cappella dove un padre officiava. Mi accorsi che il sonno era più denso del previsto e tutt’altro che finito, tant’è vero che appena cominciata la messa, caddi in un torpore anomalo e diverso dal classico rintronamento mattutino. Così che ricominciai a sognare. Questo nuovo sogno si ricollegava al precedente, mano a mano che proseguiva mi rendevo conto che era come il secondo tempo del primo sogno, ed ebbi la sensazione netta, e questa volta più precisa, che il sogno era Francesco. Francesco bambino, ragazzo e vecchio, tutti insieme. Diverso da come lo volevano tutti, madre, padre, amici. Diverso da come lo volevano tutti ma non diverso da come lo voleva Dio. Io incredulo mi avvicinavo e dicevo: “Ma sei proprio tu?” e lui, a mezzo sorriso, con l’aria di sfida che si ha nei confronti degli increduli, mi disse, indicando il saio: “Tocca” e in quel momento, appena ebbi tra le dita il tessuto del Santo, sentii l’odore del fieno tagliato, mi sembrò di essere in mezzo ad un campo di grano.



Ritrassi la mano come da una fiamma o comunque da una scottatura, e mi sembrò che l’aria si scaldasse e dall’aria uscisse come un suono di battere d’ali che puoi sentire nelle piazze d’Italia o comunque nei paesi dove i colombi planano sui turisti. Fu proprio quel suono a rassicurarmi che Francesco era davvero Francesco, che la piazza era una delle tante piazze che normalmente si visitano la domenica e che io ero contento di essere lì. Senza alcun timore chiesi: “Cosa vuoi da me?” e lui, senza l’aria di voler correggermi e forse anche un po’ divertito, rispose: “Cosa vuoi tu da me? Tu mi conosci ed io conosco te” e io, un po’ ruffiano, un po’ per compiacerlo e un poco per i suoi piedi sporchi di terra e di fango che spuntavano dal saio, gli dissi, chiedendolo: “Camminiamo?”. E cominciammo a girare sfiorando i muri della piccola chiesetta dove l’altro frate diceva messa e fu un parlare silenzioso se non addirittura muto, se non per le risposte che Francesco dava all’altro padre mentre officiava come un qualsiasi chierichetto di una parrocchia di campagna intorno agli anni ‘30, comunque tra le due guerre mondiali.



Era curioso come le parole mi uscissero dalla bocca completamente mute e statiche, sembravano una fila di uova di gallina di un ordinato pollaio del Nord. Ma il mio cuore era un vulcano, i pensieri uscivano come lava e avevo la sensazione che fossero esattamente il contrario delle parole che li rivestivano. Francesco al mio fianco, mentre passava tra i banchi della chiesetta, con la stoffa del saio, li lucidava, li puliva, li ordinava in fila, come una qualsiasi servetta friulana faceva tutte le mattine nella casa dove lavorava. Passò anche davanti a una curiosa acquasantiera, che non era altro che una mano di pietra che nell’incavo teneva solo due o tre gocce d’acqua, e questa volta più decisamente mi sorrise dicendo: “Questo è un fiume, anche se fuori ci sono i fulmini”. Non mi azzardai neanche a chiedergli la spiegazione di quello che mi aveva detto. Gli dissi solamente: “Anch’io” e lui rispose semplicemente: “Lo so”. Questo breve dialogo, fatto durante la messa alla quale partecipavo, mi causò un momentaneo senso di colpa, come se stessi disturbando la funzione, e che io fossi ancora bambino in collegio e l’assistente come al solito dicesse: “Sei il peggio di tutti” e io gli rispondessi con orgoglio: “Lo so” e lui, come se avesse fatto un tredici al totocalcio, al massimo del piacere, mi dicesse col dito puntato verso la porta: “Fuori!” Questo strano senso di colpa mi ha sempre seguito come un qualcosa di inadattabile al misticismo obbligato, un poco coatto, delle chiese, da San Pietro all’ultima chiesaccia del Bronx, mentre all’aperto mi sentivo vicino a Dio come una zolla vicino all’albero, o nella terrazza di casa mia di notte, sotto un cielo stellato mi perdo ancora oggi dentro una di quelle stelle.

Francesco ritrasse la mano dall’acquasantiera, mi guardò e mi disse che anche per lui era sempre stato così, che Dio è dappertutto, negli alberi, nelle piante, nei fischi lontani dei treni, nel filo spinato, nei denti e nelle bocche che sorridono come nelle lacrime degli occhi che piangono, per non parlare negli animali, perfino nel pallone quando entra nella porta e fa goal, e che forse, qualche volta, a Gesù in ritardo, è capitato di saltare una delle grandi chiese addobbate e di aver continuato a pregare suo Padre per strada in mezzo al traffico. Il suono della ‘R’ nella parola ‘traffico’ mi svegliò improvvisamente, ma mi svegliai con una grande stanchezza alle ali, come un passero che ha sbattuto contro l’inferriata della sua gabbietta. Mi resi conto che, per quanto meravigliosa e calda la chiesetta dove si svolgeva la funzione, quella strana atmosfera di dolce inconveniente che sentivo durante il sogno era finita e che il vero tempio, la vera casa di Dio, è la nostra anima, anche quella più buia o più difficile da raggiungere, e che Francesco siamo noi al momento della speranza, quando siamo in attesa e confusi e lo sono soprattutto i nostri sensi e, in un mondo come quello che ci circonda, la nostra pace. E mentre pensavo e sentivo questo e il frate a conclusione della messa diceva: “La pace sia con voi” io gli risposi: “Francesco, fammi volare!”.

Lucio Dalla

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