Lucio Dalla è morto, un infarto l’ha portato via. Avrebbe compiuto 69 anni fra pochi giorni. La notizia rimbalza in rete a metà mattina e lascia increduli. Qualche settimana fa lo avevamo visto raggiungere in punta di piedi il palco del Teatro Ariston per dirigere l’orchestra e il giovane Pierdavide Carone nella sua Nanì. «Pensa, a Sanremo non ha voluto incontrare i giornalisti per paura di poter oscurare Pierdavide», ci racconta Massimo Bernardini, visibilmente commosso. «Ma lui era così, basta pensare che quando suonava il sassofono nei dischi degli altri si nascondeva dietro il nome di Domenico Sputo. E questo è un altro indizio che ci dice che persona era. Nonostante il successo che aveva raggiunto si è sempre considerato “uno da niente”, un “peccatore perdonato”…». Bernardini riprende in mano i suoi dischi e da ciascuno ne viene fuori un ricordo. «Non è facile parlarne adesso… ma una cosa non la posso dimenticare. Quando, nel 1993, lanciò il disco “Henna”, volle incontrare i giornalisti, entrando nelle loro case a fare colazione. Si presentò una mattina presto e ci trovò in pigiama, i miei figli se lo ricordano ancora. D’altra parte era un innovatore vero. Amava rompere gli schemi, le distanze, i riti inutili… E poi era sempre affettuoso e allegro, ma di un’allegria profonda. Amava la vita per quello che era, nei suoi lati migliori, in quelli orrendi e nella sua normalità. Non ho mai conosciuto infatti una persona che, come lui, si trovasse bene a Sanremo come in un vicolo malfamato, in una galleria d’arte come in una chiesa. E non è mai stato un disperato. Non che non provasse disagio o che non si arrabbiasse davanti alle ingiustizie, ma non ha mai avuto la tentazione di spiegarti il mondo con un’ideologia, anche se nelle sue canzoni il mondo c’era e con lui mille chiavi di lettura diverse. Risentitevi Futura, o La notte dei miracoli (che venne usata anche come sigla ne “La notte della Repubblica” di Sergio Zavoli). Uno che scrive delle canzoni del genere significa che vive una speranza per sè». E a livello musicale cosa viene a mancare? «Questa volta la perdita è davvero grave, perché era un artista vivo, ancora pieno di voglia di fare. Non stava mai fermo. Era un inquieto, non dormiva mai. Salvo poi magari addormentarsi in piedi mentre gli parlavi… Se non stava scrivendo per sè, produceva i dischi degli altri o pensava al teatro. Ultimamente era rimasto folgorato anche dalla musica colta e avrebbe potuto creare qualcosa di nuovo nel campo della regia d’Opera…».
In che modo, secondo te, è riuscito a essere profondamente innovatore della musica italiana? «Lucio Dalla era essenzialmente tre cose nello stesso tempo: un enorme cantante, un musicista clamoroso e poi, nel tempo, un grande paroliere (un’arte che imparò dall’amico Roberto Roversi). Lui sentiva il suono che lo circondava, quello che stava succedendo nel mondo della musica e assorbiva tutto, come una spugna. Allo stesso tempo però era uno dei pochi in grado di ributtare tutte le innovazioni nel mondo della canzone popolare, senza tradirla e senza farsi ingabbiare dalle mode del momento. E poi conosceva il pubblico come pochi. Sapeva essere anche un artigiano di grande mestiere. Altrimenti non si capisce come uno, nato sperimentalista fosse finito a scrivere Attenti al lupo…».
Ripercorrendo la sua vita attraverso i suoi dischi, quali sono a tuo avviso quelli fondamentali? «Se si riascoltano “Anidride Solforosa” o “Automobili” si capisce quante idee nuove avesse. Personalmente, gli ho sempre detto la mia: anche se lui non lo amava molto, ho sempre pensato che “1983” fosse un disco grandioso. Certo, l’album che lo consacrò e lo fece diventare un opinion leader, fu “Lucio Dalla” del ’79. Poi, con “Banana Republic”, assieme a De Gregori, fu davvero la voce di un’epoca che seppe riportare in Italia l’esperienza del concerto dopo i disordini degli anni Settanta. Poi (anche se forse le vette di “Henna” non le raggiunse più) non ci si salva… Nel senso che sono uno più bello dell’altro, fino ad arrivare alla canzone più innovativa dell’ultima edizione del Festival di Sanremo…».
E qui torniamo all’ultimo vostro incontro. «Un incontro mancato, come ti dicevo, a causa della sua umiltà. Ci siamo dati appuntamento alla prossima occasione.
Sai mi chiamava Bernardo, o “fratello”, quando voleva parlare della cosa che gli interessava di più e di cui abbiamo discusso in tutti questi anni: Gesù Cristo. Aveva divorato Gesù di Nazaret di Benedetto XVI. Ne discuteva appassionatamente. Quello sguardo con cui lui ha sempre parlato degli ultimi, dei poveri, senza livore ideologico, lo sentiva su di sé. Si è sempre considerato amato, anche se era “uno da niente”, un “peccatore perdonato”…».
(Carlo Melato)