In un lasso di tempo lungo un quarto di secolo – infinito e nello stesso tempo brevissimo – si situa il fulmineo esordio, la transizione artistica e il paziente itinerario del ritorno su supporto discografico del musicista e autore bolognese Miki Porru, ideale incarnazione di brillante bucaniere delle sette note, cresciuto tra le più svariate e impazzite tendenze della musica rock e pop a partire dai Beatles con sterzate su melodico, funk e terre di mezzo e finalmente approdato – dopo varie vicissitudini – a una sospirata espressione d’autore personale e completa su lungometraggio sonoro.
Scoperto da Red Canzian nel 1986 e allevato dapprima alla sua scuderia con il supporto del team musicale di riferimento del musicista veneto, è nella sua prima maniera (due Sanremo nel 1987 e 1988) un’emissione di quella tendenza allora in voga del pop melodico dal disegno curato, ma declinante verso le sonorità friabili, esaurite e ben presto datate degli Ottanta più livellati.
E il nostro, pur nei limiti di quella particolare fase della musica non solo nazionale, si scopre melodista dal tratto spigliato (l’aria quasi innocente, ma candidamente confessoria di “Ogni tanto si sogna”) in cerca della identità più marcata che sarebbe stata recuperata dal music business internazionale con la rifondazione sonora del decennio a venire.
Con il secondo album “Nuclei disarmati annoiati” del 1990 – lavoro che annovera la collaborazione di Freak Antoni (Skiantos) – il nostro filtra la stagione pregressa del funk elettronico e tecnologico di marca Prince alla luce delle esperienze acquisite sul campo, e pur con l’impressione che tutto ciò tradisca qualche anno di ritardo rispetto alle riappropriazioni dell’epoca verso un sound più corposo, colpisce e lascia il segno con la divertente e sfrontata vena del singolo “Mani”.
Comprensibili difficoltà di navigazione nello spietato mondo discografico e conseguente ritardo sui tempi in un panorama musicale comunque sempre in movimento, determinavano l’uscita temporanea sine die del musicista bolognese dalle luci dei riflettori per indossare i panni sempre più convinti di autore per conto altrui, tra solisti noti (testi per l’ultimo album di Delia Gualtiero, per il primo della figlia Chiara Canzian e firme a quattro a mani con lo stesso Red) e progetti indipendenti senza quartiere.
Una peregrinazione lunga oltre vent’anni con gli ovvi e inevitabili a tu per tu con illusioni, disillusioni, cadute e ripartenze hanno finalmente contribuito a forgiare in un vestito sonoro riconoscibile, originale e intimo, la creatività di Porru dando luogo alla istituzione di un vero e proprio “canzonificio” (come lo stesso autore ha battezzato la sua seconda venuta nel mondo discografico).
Preceduto dal bel singolo “L’infinita” nel 2010, “L’uomo che cammina” è un lavoro sfaccettato, forte e provocatorio, nel quale Porru veste i panni del guascone sovversivo, ma con un grande senso d’arguzia tra disillusione, autoironia e senso di riscatto da giocarsi passo per passo e senza formule precostituite e vincenti.
Scritto interamente dal nostro e arrangiato a quattro mani insieme a Daniele Bruno (tastierista storico del primo Carboni che si occupa degli strumenti di sua competenza con Porru a chitarre e basso), l’album si compone idealmente di tre sezioni con tre brani a fungere da riferimento continuo anche alla fine di questo particolare viaggio quasi come in un eterno ritorno. Nella prima (“L’uomo che cammina”, “Le conseguenze del disamore” e “L’indolenza”) l’autore bolognese, passate in rassegna le crudezze e le brutture dell’uomo moderno – accanto al quale si colloca senza ipocrisie – si mette in cerca con tenacia e persino con ferocia di un senso al tutto che parta da segni anche fragili di rinascita dell’individuo.
La title track è una rock-ballad metropolitana – un po’beffarda e un po’ drammatica – che descrive il vagare indefesso di un uomo che arriva a implorare segni del cielo con la sottolineatura calda e sanguigna dell’elettrica, mentre in “Le conseguenze del disamore” Porru è puro provocatore con un piglio tragico e ironico condotto alla maniera di un Jekyll/Hyde o di un Joker in borghese orfano di Bruce Wayne. La smorfia vocale del nostro, su un tappeto ritmico hard-oriented, è volutamente poco piacevole quasi a sottolineare nel brano un mood di anti-idillio che prosegue con la più intima e non meno affannosa “L’indolenza”.
È a questo punto che si entra nella seconda sezione con un tenero sentore di stacco dal mood angoscioso dell’incipit. Un fragrante largo melodico su un tappeto di grandi e dolci accordi di chitarre quasi folk e rintocchi corali femminili (Chiara Vartanian), riveste la bellissima “Amarcord”. Sfiorati gli abissi più bui, l’umano si ribella e desidera tornare a uno sguardo originale, come quello materno («“e quando si scoprì malata io ricordo ancora le parole che mi disse con amore “sono per aria tutti i miei sogni i miei valori e i miei bisogni”»).
In questa canzone che sembra in certo modo saldarsi sotto il profilo lirico alla recentissima e non meno intensa “Madre” di Carboni, l’amore è parola vivente e pulsante, capace di muovere e far avventurare con vigore e fiducia anche nei sentieri più impervi e meno rassicuranti con una sensazione di mai raggiunto appagamento (l’intrepida e quasi teatrale “Non basta mai”).
Sulla scorta della ricerca a ritroso della seconda parte, la più estesa sezione finale viene dedicata alla ricerca dell’amore adulto, dell’altra metà del cielo con l’intenzione di smascherarne le illusioni costruite a tavolino che finiscono per risolversi nella sembianza di quello che con espressione geniale e ficcante viene individuato da Porru come “disamore”.
Ecco allora la melodia rotonda de “L’inganno” che su un tipico abito da elegante canzone confidenziale e con il bellissimo supporto del suadente sospiro vocale di Susanna Greco (già corista di Vasco Rossi e prodotta poi da Curreri), declina con dolce e pungente ironia il gioco delle parti e i sotterfugi del rapporto affettivo delineando un mood che prosegue con la più gioconda “L’amore è una trasmutazione alchemica che non prevede uno scambio equivalente”.
La divertita, sardonica e allegra ballata su archi giocosi di “Come on” fotografa nel convulso presente la tematica della beatlesiana “She’s leaving home”, e con essa quella libertà amorosa che con il tema bifrontale su aria classica quasi romanzata di “Vertigini” si addentra nel vortice di un’estasi sospinta fino a un inevitabile punto di rottura.
È in questo frangente conclusivo che il tono lirico del lavoro prende una direzione nostalgica da commiato definitivo che in “La fine” sembra sancire una rottura inevitabile per bancarotta amorosa.
Il nostro sembra così congedarsi lasciando un sentore di ultima vanità del tutto che però pare trovare un inizio di pacificazione nel brano – vero gioiello dell’album – posto a metà di questa sezione “Non mi lasciare mai”, aria intensa, disincantata e toccante che su una scia liquida e malinconica di archi e linea vocale che echeggiano la grande scuola di Radius, disegna una confessione aperta e appassionata di un uomo che, dentro le proprie inesorabili fragilità, chiede di essere amato senza riserve.
E in quel ritratto si fonda il gioco dell’eterno ritorno dell’uomo al suo inesauribile cammino, al suo gridare al cielo e al fissare lo sguardo sulle misteriose e ricorrenti istantanee di quel motore amoroso dell’inizio come riferimento costante di quella roba tosta e ineludibile che è il mestiere di vivere.