Libro che ingolosisce, lungamente desiderato, copertina colorata come il coperchio di una scatola di dolci: appena la maneggi sai già che aprendola non mancheranno le sorprese (copyright Giuseppe Frangi). Apparato iconografico ricco, articolato e scintillante (alla faccia dei “secoli bui”); fitto impianto cartografico, con rimandi incrociati (cross-reference), ampie didascalie, box tematici, bibliografia aggiornata, note discografiche, approfondimenti collaterali che ti guidano come i cippi degli antichi percorsi pellegrinali; contributo interdisciplinare di quarantacinque studiosi diversi, musicologi, esperti di acustica, architetti, archeologi, filosofi, teologi, storici, antropologi; sessantacinque capitoli articolati in ordine geografico/cronologico ma di fruizione autonoma. L’«Atlante storico della musica nel Medioevo», (Jaca Book, Milano 2011, pp. 287, € 85), colma una lacuna.
Non si può comprendere l’Europa senza considerare la musica, profondamente radicata nelle origini dell’Occidente. Molti saggi inediti, intriganti, centripeti: analogie tra processi compositivi e architettura, polifonie improvvisate, la “festa dei folli”, l’uso della musicoterapia negli ospedali, canti e liturgia nei monasteri femminili, giovani cantori di cattedrali, il suono delle campane nello spazio medievale, cantillazione, ruolo del giullare, animali, segni zodiacali, capitelli, decorazioni, stagioni, eredità pagane. Sboccia un’immagine nitida e scientificamente rigorosa, però avvincente, scorrevole, godibile anche dai non specialisti. Un reticolo appassionante e lucido.
Nelle grandi ricostruzioni storiche mancava all’appello proprio la musica: perché tanto ritardo? «Forse entrano in gioco i sedimenti di antiche aporie – risponde la curatrice del volume, Vera Minazzi –fra le forme d’arte che «rappresentano» e possono veicolare contenuti dicibili, e la musica, espressione potenzialmente perturbante dell’animo e del pensiero». La musica del Medioevo è sottoposta, più d’ogni altra, alla libertà dell’interprete. «È un processo continuo di ri-creazione. D’altra parte, la musica è sempre un «qui e ora» complesso e stratificato. E poi nel Medioevo non esisteva il concetto di «versione originale» e tutto sembrava permesso ai musicisti che cercavano di travestire, trasformare e adattare la musica alle esigenze dell’occasione. Fra oralità e scrittura c’è un rapporto di convivenza. La scrittura è supporto mnemonico e strumento di diffusione. Per esempio, con la polifonia di Notre-Dame siamo di fronte a un repertorio ammirato ed emulato in tutta Europa. Qualcosa di simile al jazz, forse, ossia una tradizione musicale basata principalmente sull’improvvisazione».
Cos’è realmente il canto gregoriano? «Una matrice profonda, composita e sorprendente. Ci interroga sull’urgenza dell’espressione umana e di ciò che chiamiamo “arte”, e pone questioni fondamentali».
Cosa il Medioevo conserva di provocatoriamente vivo per noi uomini di oggi? «Il millennio medievale è un sincretismo di culture, conosce più rinascite, incontra tradizioni diverse, non si fa mai circoscrivere. C’è un continuo movimento di rinvio, crescente e circolare, tra canto, Sacra Scrittura, preghiera, vita, natura, terra e cielo.
La musica diventa parte costitutiva di un progetto complessivo di perfezionamento della mente. C’è un’interconnessione fra spazio, suono e azione. Le pietre cantano, le note sono scolpite nella roccia, le architetture divengono giganteschi astrolabi, in colloquio con il cosmo e con Dio. Sonorità vocali e pratiche rituali modellavano la progettazione delle chiese, suggerivano posizione di case, torri, cinte murarie. Il suono si estende in una molteplicità di significati. Si ascolta così il canto della Messa come una grande battaglia: il sacerdote indossa i paramenti sacri come armi, il cantore è il trombettiere, il coro è l’esercito».
«Musica è ogni aspetto della realtà. Il visibile è simbolo, gli strumenti allegorie; Cristo è il plettro disceso dal cielo a intonare il Lieto Annunzio, il Canto Nuovo, il novello Orfeo, l’unico che abbia mai domato gli animali più nocivi, gli umani. La Trinità è modello delle proporzioni riscontrabili nel mondo e riconducibili per analogia al loro principio primo. Siamo noi «moderni» – quando guardiamo indietro e tendiamo l’orecchio – a decidere: se farci cogliere dallo stupore, dalla curiosità, dallo sgomento, dall’invito a godere».