Vivere con addosso una leggenda, di qualsiasi foggia e mito si tratti, non dev’esser cosa semplice. Invece Roger Daltrey, 68 anni ben portati, sfoggia simpatia, buona forma fisica e vocale, e soprattutto antica affabilità non scalfita. All’inizio del tour europeo con cui il vocalist degli Who – band che personalmente tengo un gradino sopra Beatles e Stones nell’olimpo degli immortali – ha deciso di portare a spasso l’intero corpus di “Tommy”, Daltrey ha confermato di essere un grande cantante (eccome), un ottimo confezionatore di rock show e una persona che cinquant’anni di vita on stage non hanno snaturato.
Lui – che era il più “pulito” del quartetto, l’unico che provava a far ragionare il binomio Keith Moon/ Pete Townshend – è anche l’unico oggi a poter ancora frequentare i palchi, far roteare il classico microfono e sorridere con i soliti sguardi da bambino come già aveva fatto a Woodstock o all’Isola di Wight. Mistero del rock.



La scelta di portare in giro “Tommy” è dell’inizio del 2010, arrivata a prendere forma nell’autunno del 2011, quando i problemi di sordità di Pete, sempre crescenti, hanno consigliato a Townshend di non far parte dell’avventura, lasciando il posto a interpreti della sei corde di buon calibro, cioè Simon Townshend (il fratello, musicista di buona levatura) e Franklin Simes, sufficienti comunque per capire quanto fosse ampio l’orizzonte strumentale coperto da solo dal chitarrista originale.
Diciamo subito: il concerto vale la pena in tutti i sensi possibili. “Tommy”, opera rock datata come può essere tutta la musica concept di quell’epoca (quindi come anche “The Wall” o “Quadrophen”), si segue con orecchio filologico, entusiasmandosi sin dalle classiche note dell’overture, raggiungendo il climax alle esecuzioni di Spark, Tommy can you hear me, The acid Queen, Pinball Wizard,  See me, Listening to you, We’re not gonna take it, ripensando alla genialità di Townshend, all’unione d’intenti degli Who di quegli anni (era il ’69) e alla perfetta visionarieta acida d Ken Russel, maestro nel portare in scena la storia del ragazzo rimasto cieco, muto e sordo allo scoprire morte e adulterio dei propri genitori (c’è un richiamo amletico in tutto ciò….) che trova nella maestria del flipper un senso per riscattarsi e dar vita a una sorta di nuovo messianismo.



Ma se Tommy si prende la ribalta della prima parte dello show, sono gli Who (Daltrey simpaticamente dice: “loro continuano a rimanere la mia band preferita”) a far la parte del leone nel prosieguo. Qui il pubblico – diciamo che per il novanta per cento è composto di over quaranta, con parecchi settantenni…. – non si contiene più perché Roger propone I can See for miles, poi una bellissima rilettura di Behind Blue Eyes (dove mostra più che mai che la voce, pur se in flessione, non l’ha abbandonato) una versione decisamente bluesy di My Generation, meno straripante dell’originale, ma forse piu adatta all’età di chi canta e di chi ascolta.



E poi ancora: dieci minuti buoni di Who Are You, una trascinante Babà o’Riley più due canzoni firmate Daltrey (Days of Light e Without your Love). Ma l’intensità massima è quella che palco e pubblico raggiungono per una versione torrida di Young Man Blues, rock blues d’altri tempi e d’altri giovani, anche se il tema (i giovani non hanno soldi e potere in questo mondo; vecchi e potenti hanno tutto quello che a loro manca) non è poi così passato con gli anni, come dimostrato dalla difficoltà di trovare un lavoro decente nella Milano del terzo millennio come nella Londra degli anni Sessanta.

Ben assecondato da una band quadrata nella quale svetta il batterista Scott Deavours (mentre Jon Button al basso e Loren Gold alle tastiere fanno il minimo sindacale), Daltrey mostra un’affabilità e una simpatia fuori dalla norma per gli altri vecchi del rock, anche se l’età di quasi settant’anni non gli permette più certe acrobazie ginniche sul palco. Ma d’altra parte lui e sempre stato un fuori quota: era uno dei pochi del suo mondo ad andare benissimo a scuola (fu pure premiato come primo della classe, esprima d’essere espulso dalle secondarie) ed è sempre stato un sostenitore della vita non-tossica, finendo per malmenare Keith Moon in uno dei suoi momenti di maggior dipendenza.

Simpatico, vulcanico, affabile, padre di otto figli,  adorato dalle platee di chi ama davvero il rock e i suoi padri: Daltrey si ascolta come una leggenda che termina da proletario il suo show, dicendo: “Vi ringrazio di cuore, perché senza il vostro affetto io non sarei rimasto su questo palco per tutti questi anni”. Per fortuna che neppure lui ci credeva fin in fondo quando cantava I hope I die before I get Old.