Tony Banks nel mondo del rock e della musica è senza possibilità di smentita il più singolare tra i casi unici del suo flusso continuo e ondivago. Talentuoso e schivo, eccentrico e defilato a un tempo, votato alla musica come a una battaglia umile, passata sotto silenzio a dispetto di un contributo eccezionale di passione a sangue, di quel mondo rappresenta per molti versi l’intruso, l’anti front-man, il grande regista e sceneggiatore che quasi predilige non farsi riconoscere in quanto tale. Se c’è una figura di Innominato nel rock, non può essere che lui, medio-man, personaggio quasi dickensiano per la sua curiosità pura nella lettura del mondo attraverso note e armonie.
Avamposto creativo, minimo e massimo comune denominatore della storia musicale dei Genesis di cui ha incarnato l’ingegnoso costrutto, l’essenza armonica a un tempo intricata e limpida e l’inconfondibile estensore di temi e virate solistiche (tanto da far affermare a Steve Hackett che il celeberrimo “The Lamb Lies Down on Broadway” rappresenta, sotto il profilo musicale il miglior disco di Tony Banks più che del gruppo stesso), è rimasto perlopiù misconosciuto quanto a portata del suo genio e del suo ruolo.
A differenza della stragrande maggioranza dei musicisti di area comune, Banks è nato con l’orchestra classica nelle viscere come un’immersione nativa e subitanea in acqua materna. Se si ripercorrono alcuni grandi temi dell’opera del gruppo madre, risalta l’evidenza dell’impronta concertistica di molte delle celebri progressioni create dal nostro come se nei misteriosi “magic box” di pianoforti e sintetizzatori si nascondesse un ensemble da concerto grosso pronto ad essere sbalzato fuori da un momento all’altro.
Questo era anche l’anelito latente, ma inarrestabile che emergeva dalle straordinarie partiture tra art-rock e pop evoluto dei suoi capolavori rilasciati da solista “A Curious Feeling” (1979) e “Strictly Inc” (1995), questo continua a essere in seguito come in una splendida continuità con quel passato che si è riproposto sempre più urgente e immanente. Così pure il predecessore orchestrale “Seven” (2004) e questo album nuovo di zecca che definisce e porta a una matura e più compiuta consapevolezza quel matrimonio con il classico inscritto nel DNA del geniale tastierista del Sussex sin dal suo primo approccio a quel mondo.
“Six Pieces for Orchestra” è il coronamento, la sublimazione di un percorso lungo una vita, tra ingenuità, paradossi e intuizioni musicali di alto profilo. E come perfetta istantanea di una carriera tra alti (molti) e bassi (non comunque infrequenti), mette in scena al contempo grandezza e recessi, discese e risalite del musicista.
Bel disco, a tratti musicalmente virtuoso con una ideale sezione centrale da annali della melodia e armonia che convive senza scandalo con una sezione finale più risaputa, all’insegna di un nobile calligrafismo. Ecco come Banks descrive l’itinerario dell’opera “I titoli dei movimenti si riferiscono agli elementi di una storia universale: la seduttrice, il viaggio, l’eroe, la ricerca, la decisione e il traguardo. Lascio all’ascoltatore riempire con i dettagli, per quanto il tutto sia in realtà solo musica, una storia senza parole “.
Pur senza liriche o note esplicative al seguito è la messa in scena della storia tra le storie, di un percorso inscritto in una dinamica umana radicata e profonda, usuale ma insolita per una intima originalità che sta e cade con la persona come creatura irripetibile.
In un incipit affidato a una “Siren” (la seduttrice) che mutua dal precedente album il tono d’idillio espresso qui con una serenità che sta tra amore vero o presunto, l’ideale attore della storia è trascinato nella trincea di un inesorabile test di verità in una sezione centrale di straordinaria intensità per estro e abilità di tratteggio cromatico.
Da un versante all’altro di questa folgorante terna, ecco “Still Waters” (il viaggio) che a dispetto della sua accezione letterale, anticipa e prefigura tutto il dramma e il peso umano del movimento successivo infrangendo la velata malinconia iniziale in una serratissima triplice variazione armonico-tematica della sezione archi che percuote e provoca agganciando l’apice in una repentina sequenza che richiama il suono di un grande organo da cattedrale.
L’inizio vero e proprio dell’odissea del protagonista nel segmento mediano di questa sezione è una “Blade” (l’eroe) che ripercorre le fluide progressioni soliste del Banks tastierista affidandole ad un violino (Charlie Siem) gravido di variazioni tra frementi cenni virtuosistici corretti e ripresi nel flusso del grande e dolente disegno melodico ricorrente, per chiudersi con la superba fioritura di variazioni di “Wild Pilgrimage” che in una irrequieta successione di trame e dirottamenti di percorso, pennella un’apoteosi armonica tra archi in rotta di collisione su registri gravi e alti.
Con quest’ultimo apice Banks ridisegna e ridefinisce i retroscena e gli esiti di un suo quasi sconosciuto capolavoro come “An Island in the Darkness”, da questo punto in avanti Banks rassegna lentamente ma inesorabilmente le dimissioni da eroe in bilico tra emergenza del cuore e volata sul filo del rasoio.
E così mentre un bellissimo alternarsi immaginifico tra clarino, oboe e flauto in “The Oracle” (la decisione) si stempera pian piano nella pura autocitazione di illustre precedente, l’autocitazione si fa pensiero vincente a propria immagine con l’epilogo di “City of Gold” (il traguardo), dove a uno stereotipo stravinskijano di ottoni si contrappone un pieno orchestrale di archi dal bellissimo attacco ma privo di autentico svolgimento. E non bastano i quattro strepitosi accordi staccati in conclusione a riscattare il long one più sbiadito e retorico della storia del nostro.
Confuso spesso e volentieri come un mero per quanto grande esecutore di patrimonio musicale altrui (negli anni in cui si pensava Peter Gabriel dettasse tempi e modi di ogni movimento e colpo di penna in seno al gruppo), si è rivelato negli anni pur senza clamori e proclami come l’eroe sommesso di quella grande impresa di musica, arte e vita. Proprio lui la cui intenzione originaria era quella di essere compositore per conto altrui, si è trovato ad essere esecutore della propria scrittura indomabilmente drammatica e variegata, esibendo un portamento esecutivo originale, fatto di un suono riconoscibile come un respiro e di fraseggi e accenti unici e dilaganti come sguardo autorevole.
Come a dire, Banks questa strana reincarnazione moderna di rinnegato manzoniano, implora di essere visitato da un grande “uno” che – gaberianamente – baleni come frase fuori dal copione, insieme inattesa e desiderata nel vivo intimo. Chissà, forse in un conclusivo “One Piece” che porti alla luce la scoperta di una citta dell’oro fuori da ogni immaginazione.