Il tributo a Lucio Dalla che Bologna ha offerto è di quelli che, a parte i prevedibili, forse inevitabili momenti di retorica, non possono lasciare indifferenti. Questo piccolo uomo, figlio di una Bologna molto diversa da quella di oggi, continuava a essere amato, amatissimo: segno che un uomo può stabilire una continuità tra tempi diversi.



Un simile amore non si può dare per scontato. Altri cantanti, non meno bravi di lui, non hanno ricevuto un saluto così caloroso. E c’è da scommettere che lo stesso accadrà per chi, ancora vivo, ha scritto canzoni forse più belle delle sue, o ha conosciuto un consenso più unanime. Segno che quello che un uomo dà al suo prossimo non è quantificabile in libri, versi, canzoni, dipinti, film. Il curriculum vitae, il palmarès non contano più.



La notizia della morte di Lucio Dalla ha riempito per qualche ora la mia testa di una quantità di sue canzoni, che tante volte ho cantato, da solo o in compagnia. Alcune bellissime (Piazza Grande, La casa in riva al mare, Itaca, 4 marzo 1943, Nuvolari, Caruso), altre simpatiche, altre decisamente brutte (penso a Balla ballerino o a Futura).

Dalla non ha mai cercato di mantenere uno standard di accettabilità: si è immerso con coraggio e umiltà nel mare del nostro tempo, mettendo sul bancone del mercato quello che riusciva a portare in superficie. Non ha mai messo l’estetica davanti alla vita, perché il bello sta nella vita, non nell’estetica. Per questo Dalla era amato.



Dalla era amato perché ha attraversato molte fasi, accettandole tutte: l’esordio un po’ sbarazzino di Quand’ero soldato e di In cielo con la sua poesia stralunata; il sogno di un “fado” all’italiana, con 4 marzo, Itaca, Piazza grande; la fase più intellettuale di Nuvolari; quella super-popolare, da stadi pieni con tanto di accendini bic agitati nel buio (Caro amico ti scrivo ecc.); quella più autoriale che ha prodotto gioielli di maturità come Attenti al lupo o Caruso.

La sua forza è stata quella di attraversare ciascuna di queste fasi cercando di ascoltare in profondità, con attenzione, quello che il presente, vissuto sempre in una precisa circostanza, gli suggeriva. Ho l’impressione che sia riuscito a vivere tanto il successo di massa quanto l’attività meno appariscente come altrettante occasioni propizie. Tutto serve per capire qualcosa di più, per fare un passo avanti.

Ho sempre sentito parlare della sua religiosità, e recentemente, anche prima della sua morte, mi è capitato di leggere alcuni suoi testi o dichiarazioni davvero commoventi. Quando per esempio ha detto parole come queste:

“Il Papa è il Papa, non è mica uno scherzo. […] Sono credente, credo in tutto ciò in cui si può credere, in Dio come nell’arte, nel mare, nella vita. Credo in Dio perché è il mio Dio. Lo riconosco negli uomini, nei poveri soprattutto, in tutti coloro che hanno bisogno di aiuto. Mi ha sempre colpito la decisione di Cristo di nascere povero. Lui, povero, è il futuro. La fede cristiana è il mio unico punto fermo, è l’unica certezza che ho”.

Queste poche parole sono piene dell’energia di un uomo che vuole essere protagonista fino in fondo di quello che vive: credo in Dio perché è il mio Dio. La fede è la sua “unica certezza”.

Si capisce che non erano parole dette tanto per dire. Lo testimonia l’umiltà con la quale ha vissuto il rapporto creativo. Sono pochi gli artisti umili, quelli voglio dire che vivono con un po’ di tremore tutta la responsabilità che l’essere artisti comporta, mettendo sempre al primo posto la realtà e non – come fanno in tanti – il proprio stile o meglio: la propria cifra stilistica.

A me di Lucio Dalla interessa questo: il fatto che ha molto da insegnarmi sulla moralità dell’artista di fronte al mondo. Credo che la sua ricerca religiosa, segnata dalla fede cristiana, non sia estranea a questa sua posizione, che conta ben più della (pur alta) qualità della sua musica.

E non m’importa un fico secco delle polemiche che i soliti giornalisti sciacalli amano scatenare, come quella relativa a Marco Alemanno, suo compagno, che in chiesa è stato chiamato “amico”, facendo gridare i nuovi benpensanti all’ipocrisia. Dio mio, cosa non fa certa gente per la carriera! Fino a ridurre la discussione sull’omosessualità a una questione di termini (“amico” o “compagno”), ossia alla sua crosta sociale. Come se il dramma dell’omosessualità si potesse dissipare, cancellare con qualche nuova regola sociale.

C’è chi lavora alacremente per costruire un mondo senza ferite, tutto levigato, dove un’indifferenza generalizzata chiamata tolleranza renderà tutti soli, disperati e insignificanti. Preferisco le mie tare, così come Lucio Dalla accettò le sue. Per questo lo ringrazio.