Gli incontri in musica fanno quasi sempre bene. Prendi un musicista onesto e un chitarrista dalla carriera mitica e vedi cosa ti combinano. Succede così che Bap Kennedy si è messo nelle mani di Mark Knopfler per tirare fuori il “discone” che il primo forse non era ancora riuscito a produrre in tutta la sua carriera di cinquantenne.
Nordirlandese, Bap è stato il band leader degli Energy Orchard, formazione di ascendenza vanmorrisoniana, ragazzi capaci di qualche disco di buona fattura, soprattutto l’eponimo del 1990; finita la band, mister Kennedy era andato a registrare il suo bellissimo esordio solista, Domestic Blues, in compagnia di Steve Earle, Nancy Griffith e Peter Rowan. Ma la cifra dei compagni di viaggio è rimasta nel dna di Bap e infatti molto più tardi, nel 2005, è un altro amico di turno, Shane McGowan (ex Pogues), che lo accompagna nelle registrazioni di The Big Picture, altra buona prova ricca di qualità. Passano gli anni, Kennedy scrive Moonlight Kiss e traccheggia senza esagerare in vite rock fino ad arrivare al suo nuovo disco, The Sailor’s Revenge e questa volta tocca a Mark Knopfler assecondare le canzoni del nordirlandese.



Come sempre è accaduto – ne sanno qualcosa Bob Dylan, Willy De Ville ed Emmilou Harris – il marchio di fabbrica del chitarrista scozzese è un mix di folk celtico, country e canzone d’autore, di vene morbide e nostalgiche, di pulizia sonora e di lirismo intenso. Il tutto miscelato con la vena decisamente calda di Kennedy dà vita ad un disco accattivante che può fare la felicità di chi ama l’irish sound, la canzone d’autore, il folk-rock e pure il pop di qualità, perché The Sailor’s Revenge è un disco di gusto particolare, antico, intimo, dalle sfaccettature molteplici.



Le canzoni sono tutte di sensibilità estrema, a partire dall’apertura di Shimnavale, dove già il fraseggio appena suggerito tra violino e la chitarra di Mark posizionano il sound in un territorio indiscutibilmente knopfleriano. Tremendamente celtica è invece Not a Day Goes By (“….Non è solo un giorno che se ne va, devi fare una scelta: o adesso o mai più”), mentre c’è l’impronta di Dylan sulla titletrack (molto God on our side) e Maybe I Will, pianistica e decisamente bluesy, pare una canzone di Mike Scott. Canta bene, Bap Kennedy, come un Earle con meno alcool in corpo, . Ma soprattutto scrive molto bene e ha un orecchio sempre teso verso la realtà. Lo dimostra Jimmy Sanchez, canzone scritta ricordando la vicenda incredibile dei minatori cileni rimasti intrappolati da agosto ad ottobre nella miniera di San Josè.
Bap senti un messaggio radio di Sanchez, il più giovane di tutti (19 anni), che mentre era nelle viscere della terra diceva “non so come, ma ora so che devo cambiare”; su questa frase impressionante il nordirlandese ha costruito questa canzone delicata e tesissima che ruota attorno alla necessità di cambiare anche in una situazione così estrema e impossibile.



Il disco è pieno di cose da cogliere, mai definite anche quando sembra che quasi inevitabilmente vadano a parare nel folk-rock dylaniano di Please Return to Jesus, dove il mandolino contrappunta una veloce ballad di vita che fuggono e ritornano verso la casa del Padre (“ho letto le istruzioni della vita e del cuore, per favore ritorna a Gesù, grazie…”). Il tutto si chiude con i sei minuti di Celtic Sea, sospesa tra un un tin whistle e una nostalgia di onde, scoglie e burrasche lasciando un sentimento di compiutezza.

Bap è un musicista onesto, si diceva iniziando, non un genio. Eppure il sapore artigianale di un lavoro come questo suo ultimo disco si è perso nei labirinti delle produzioni patinate. Lui è un uomo che si è sempre aggirato tra il pop e il sound americano, senza mai fare una scelta definitiva di campo, senza mai scendere di qualità, senza mai eccellere in creatività. Questa volta le sue nuove undici canzoni, grazie al lavoro pulito e vellutato di Knopfler, gli permettono di brillare come mai prima.

In queste settimane ce ne sono parecchi di dischi da ascoltare, come il nerissimo Funeral Blues di Mark Lanegan (con un capolavoro come Bleeding Muddy Waters, che riporta il leader degli Screaming Trees a livelli altissimi di produzione), l’egregio Temple Beautiful di Chuck Prophet (da ascoltare assolutamente anche per le sole Museum of Broken Heart e Willie Mays is Up at Bat) e il bel ritorno blues di Ruthie Foster con Let It Burn. Ma Sailor’s Revenge svetta, forse per la forza centellinata di un bel musicista che fa dischi con il contagocce. E che stavolta ha fatto qualcosa di particolarmente centrato con l’aiuto di un amico chiamato Mark.