Ha la stessa età di Adele, ma è un maschietto e ha la pelle nera. Per il resto qualcuno ne pronostica già lo stesso successo. Stiamo parlando di Michael Kiwanuka, cantautore soul-pop che ha appena prodotto il suo disco d’esordio, “Home again”, un lavoro che ha tutte le caratteristiche per farsi ascoltare con attenzione sorprendente.
Da tanto tempo non si ascoltava un disco evidentemente confezionato per le classifiche e per il grande pubblico che però conserva tutti quegli ingredienti di qualità, di scrittura e di sentimento che devono essere presenti in un disco di qualità, pena lo scadimento complessivo.
Michael, 24 anni vissuti nei quartieri della suburra a nord di Londra, figlio di rifugiati ugandesi del periodo del dittatore Amin Dada, mette in questo suo esordio tutto il suo bagaglio di sogni, speranze e musiche, canta ispirato e ha canzoni di alto livello: Home again è già un piccolo hit in tutta Europa (tranne che da noi), Tell me a Tale ci fa tornare ai tempi del Philadelphia sound mentre Bones (che sicuramente piacerebbe a Paolo Conte) ci rimanda negli anni Cinquanta, facendoci risentire la forza di un coro doo woop e la sensualità delle spatole sulle pelli della batteria; spesso nostalgico, Kiwanuka spinge sul tasto della commozione trattenuta e quando tocca le corde di Always Waiting (“Ti sto aspettando, aspetto solo te, amico mio….”) lo fa con un certo garbo da innamorato della vita, mai cadendo nella disperazione grottesca che rende ridicola tanta musica grossolana.
Visto che il disco suona splendidamente e che Michael non è Prince (che per il suo esordio aveva voluto suonare incidere tutti gli strumenti e produrre…..), c’è da ricordare che dietro il suo lavoro c’è Paul Butler, tremendo polistrumentista e capobanda dei Bees (qualcuno ricorderà il multiforme Free the Bees), uno che passa noncurante dal sax alla batteria e che ha realizzato un prodotto che ha la stessa freschezza e originalità tendente al retro che era il vero marchio di fabbrica di Frank della scomparsa Amy Winehouse.
Disco poliedrico e sempre morbido, mai fuori dalle righe, capace di riportarci davvero a suoni dimenticati, come un Marvin Gaye che s’intrecci con la sensibilità di Paul Simon. Non tutte le canzoni sono capolavori, ma ci sono vette impressionanti come il soul-blues di Worry Walks Beside Me, capace di comunicare brividi di autentica solitudine con una chitarra che si strazia in un vibrato che sa tanto di anni Cinquanta e Any Day Will Do Fine, che restando nello stesso solco si fa sostenere sorprendente da una sezione di ottoni e dagli archi di un’orchestra lussuriosa.
Gli inglesi, che sono sempre fortissimi nel vendere la propria merce, hanno già scomodato per Kiwanuka nomi importanti. Il giovane Michael si trova così già figlio di ascendenti importanti come Otis Redding, di cui on stage interpreta l’immortale Dock of the Bay, Randy Newman e Bill Withers (non tutti se lo ricordano, ma è lui ad aver scritto Ain’t no Sushine), mentre il mensile britannico Q vede il suo songwriting sulla scia di gente di come Van Morrison e Joni Mitchell. Inoltre lo propongono già come l’ultimo prodotto della tendenza acustica, una percezione più o meno latente che ha coinvolto negli ultimi anni gente come King of Convenience e Turin Brakes, ma anche gente come Elbow e James Blunt (e in effetti Michael è coinvolto nella Communion, l’organizzazione messa in piedi da Ben Lovett dei Mumford And Son per sostenere artisti indipendenti inglesi e che già ha coinvolto Laura Marling, Goyte, Ben Howard, Matt Corby, 3 Blind Wolves ed altri).
Sia come sia, nulla può togliere il feeling delicato, ma di grande personalità e la buona scrittura di questo ragazzotto di origini ugandesi che già dall’anno scorso la BBC aveva pronosticato essere “the next big thing from Uk”. Non sappiamo se è vero, ma intanto ascoltiamo e sognamo come se lo fosse.