Il 15 aprile al Teatro Regio di Parma è stata presentata un’opera di Verdi da considerarsi rara, almeno in Italia: Stiffelio. Non è una scelta effettuata unicamente per soddisfare l’adempimento di presentare il “tutto Verdi” in vista del progetto di predisporre un cofanetto di Dvd che il teatro intende mettere in vendita, in tutto il mondo, per l’ormai imminente bicentenario della nascita del compositore, nell’ottobre 2013. Composta con impeto, tratta di un tema insolito nella poetica del compositore: il perdono.
Si basa su un dramma francese Le Pasteur (Il pastore protestante), sottotitolato L’Evangile et le Foyer (Il Vangelo ed il focolare domestico) di Eugène Bourgois ed Emil Souvestre, di successo nella Parigi del Secondo Impero e di cui era stata pubblicata una traduzione italiana. In una piccola enclave protestante nei pressi di Salisburgo, un pastore, lo Stiffelio del titolo, scopre di essere stato tradito dalla moglie Lina.
La comunità la condanna, a cominciare dal padre, e vorrebbe un divorzio per colpa (e anche peggio). Ma durante il servizio domenicale, Stiffelio sceglie le pagine del Vangelo sull’adultera e chiede implicitamente il perdono degli uomini dato che Dio aveva già dato il suo. Nel 1850, Stiffelio venne presentata a Trieste, ma rimaneggiata più volte a ragione della censura: la versione più eseguita, intitolata Aroldo, sposta l’azione in Terra Santa ai tempi delle crociate, il pastore diventa un crociato e si dilata l’intreccio. Perdendo il mordente dell’originale.
Fu proprio la vicenda considerata, all’epoca, scabrosa a rendere subito molto difficile la vita della nuova opera. La censura che si accanirà sul soggetto di Stiffelio indurrà gli autori ad avvalersi del materiale musicale riutilizzandone una gran parte per dar vita, sei anni dopo, a un’altra opera, Aroldo. La partitura originaria era considerata persa. Oltre un secolo trascorse perché il pubblico potesse nuovamente assistere all’opera. La partitura venne ritrovata quasi per caso negli archivi del Conservatorio di Napoli. Stiffelio debuttò nel 1968 proprio al Teatro Regio di Parma, che segnò una nuova fortuna per il melodramma, subito apprezzato come un capolavoro dimenticato, dalle situazioni e dalle implicazioni psicologiche sorprendentemente in Bretagna e Germania.
Il musicologo Julian Budden la considera allo stesso livelli della “trilogia popolare” (Rigoletto, Trovatore , Traviata) – che Stiffelio precede di alcuni mesi. È in repertorio in numerosi teatri tedeschi ed americani, venne accolta trionfalmente a Londra nel 1993, ma è poco rappresentata in Italia. L’opera ha momenti di grande presa sul pubblico (i concertati del secondo e terzo atto), è breve e si basa su un libretto compatto.
In altra sede (Avvenire dell’8 aprile) si è esaminato il significato di Stiffelio nell’ateismo dubbioso e tormentato di Verdi. In questa è bene soffermarsi sugli aspetti di innovazione musicale. In primo luogo, la vocalità del tenore imperniata sul registro di centro, distante quindi sia dai tenori “lirici” delle opere giovanili sia dai tenori “spinti” (come il Manrico di Trovatore). Anticipa il Verdi maturo di Un Ballo in Maschera e soprattutto di Otello. Per questo motivo, è stata negli anni Settanta e Ottanta un cavallo di battaglia di Placido Domingo, José Carrera e (in Italia e Germania) dell’allor giovane Mario Malagnini.
In secondo luogo, l’abbandono di “convenzioni” come il coro introduttivo e una scena finale secca dove al declamato del tenore fa da contrappunto la polifonia del coro. In terzo luogo, dopo una ouverture di prammatica in cui si intrecciano le melodie dell’opera, una breve aria cromatica del basso – in cui si precede di decenni il wagneriano Tristan und Isolde. In quarto luogo, un soprano quasi privo di coloratura; una linea vocale purissima accompagnata, nel momento cruciale del confronto con il marito che ha tradito, unicamente dal corno inglese. In quinto luogo, un baritono cugino di Rigoletto. Insomma, un lavoro di straordinaria modernità e carico di innovazione – troppa per essere compresa e assaporata nell’Italia di metà ottocento.
L‘allestimento è affidato alla bacchetta di Andrea Battistoni e alla regia di Guy Montavon. Dal capoluogo emiliano, dove si replica sino al 24 aprile, lo spettacolo andrà all’Opéra di Montecarlo che lo coproduce. Si avvale dell’edizione critica della partitura curata da Kathleen Kuzmick Hansell, pubblicata dall’Università di Chicago e da Universal Music Publishing Ricordi srl.
Efficace la scena unica: un ambiente severo grigio che con un minimo di attrezzeria si trasforma nei vari ambienti. Oppressivo e claustrofobico il clima in cui si svolge il dramma. Nella piccola comunità protestante, tutti vestono colori scuro: predominano il grigio e il nero su cui si stagliano la rendingotte rosso-aragosta del seduttore (Raffaele) e l’abito bianco che veste Lina nell’ultima breve scena.
Il giovanissimo (25 anni non ancora compiuti) Andrea Battistoni, nuovo enfant prodige della concertazione, questa volta l’ha imbroccata; dopo avere deluso alla Scala nella recente ripresa de Le Nozze di Figaro, accentua forse un po’ troppo i toni marziali nell’ouverture, ma sostiene molto bene canto e azione nel resto della serata; un elogio particolare per la guida degli ottoni, specialmente del corno inglese nel duetto del terzo atto.
Roberto Aronica è il protagonista: esemplare il modo in cui gestisce la propria vocalità. Ha iniziato la propria carriera come tenore lirico e tenore di grazia. Con gli anni, la “tinta” si è brunita; affronta bene un ruolo quasi da bari-tenore tutto imperniato sul registro di centro. Promette di essere l’Otello del futuro. La giovanissima Yu Guanqun è Lina: viene dal conservatorio di Shangai, ma da tre anni alla “scuola dell’opera” di Bologna, ha una dizione perfetta (in italiano) e una linea purissima. Roberto Frontali è tagliato per il ruolo. Bravi tutti gli altri (specialmente il coro). Unico neo: il volume piccolo di George Andguladze (Jorg).
Grande successo. E speranza che questo capolavoro trascurato riprenda a circolare nei maggiori teatri.