La disillusione. Sicuramente Manuel Agnelli ne ha messa tanta in questo nuovo lavoro. Ogni album degli Afterhours è da affrontare con cautela, ci sono tanti spigoli. Seguendo la band da sempre non è mai stato facile, il primo impatto è sempre stato tormentato. Spesso le scelte fatte non si capivano subito, non è sempre facile e guai se lo fosse.
Non era stato facile accettare alcune scelte come partecipare a Sanremo o la dipartita (consensuale ma unilaterale) di Enrico Gabrielli, capire l’uscita e il rientro di Xavier Iriondo o la piacioneria dell’ultimo “I milanesi ammazzano il sabato”. Lo stesso vale per “Padania”.
Arrivare in fondo al disco lascia spaesato. Cosa ne pensi? Ti è piaciuto? E se fossero stati un gruppo nuovo? Avrebbero avuto tutte queste stellette? Tante domande a cui abbiamo cercato di dare una risposta.
Gli Afterhours d’altro canto nel bene e nel male rappresentano ancora il più importante gruppo indie rock italiano anche se adesso giocano con lo slogan di una Lega in crisi, proprio loro che da sempre sono su posizioni politiche opposte. “Padania”: furbizia da marketing consumato o messaggio politico?
Partiamo dal primo brano: Metamorfosi. Il ritorno di Xavier riporta alla mente certe sperimentazioni rimaste nel limbo di Germi, ora loop e distorsioni trovano uno sbocco trascinante in questo pezzo. Nume tutelare del brano è Demetrio Stratos, Manuel si supera nei vocalizzi mettendo a tacere chi lo critica per le sue scarse doti vocali.
La successiva Terra di Nessuno è molto “Afterhours ultima maniera”. Rodrigo D’Erasmo in primo piano caratterizza con il suo violino noise, questa bella ballata agrodolce. Il singolo La Tempesta è in arrivo è ormai in giro da un po’. Il travolgente sound della band milanese, con la coda noise, ormai è un marchio di fabbrica. Il troppo orecchiabile il ritornello alla distanza stanca e sa di già sentito (ma forse di troppo sentito).
Costruire per distruggere è il brano che gli Afterhours non facevano da tanto. Sussurri, ammiccamenti all’easy (a tratti ricorda Bianca). Il gioco violino aspro/chitarra/piano in dissonanza è una delle trovate più strane di questo lavoro. Alla fine ci si sente piacevolmente spiazzati: “tutti gli afterhours in 5 minuti”.
Quasi grind, almeno è quello è il tentativo di essere, è Fosforo. Testo minimale e quasi banale: “Se non distrugge rinforza” ripetuto all’infinito. Il brano passa e come tanti brani brevi, ma intensissimi che ha già fatto la band milanese. Sarà sicuramente apprezzato live dal lato più cattivo dei fan.
Classica e stenterà ad uscire dalle setlist è “Padania”. La title-track dell’album (titolo volutamente ironico/provocatorio) gioca sulle sonorità tra l’epico e il sognante che accompagnano un bellissimo testo:
«Se un sogno si attacca come una colla all’anima
tutto diventa vero tu invece no
Puoi quasi averlo sai, puoi quasi averlo sai
tu puoi quasi averlo sai e non ricordi cos’è che vuoi
Ancora ha senso battersi contro un demone
Quando la dittatura è dentro di te».
La dissonante e crepuscolare Ci sarà una bella luce dà quasi fastidio. Sembra un collage di suoni e il testo va dietro alla linea musicale. Altri brani da segnalare sono Spreca una vita, marziale e solida, mentre la disperata poesia in Nostro anche se ci fa male, quasi solo voce e chitarra, addolcisce le coltellate ricevute con i brani precedenti:
«Con il veleno che ti ho messo in cuore
Non si sopravvive mai
Ma tu hai imparato ad amare il tuo dolore
piuttosto che non amarmi più».
Le successive: l’elettrica Giù nei tuoi occhi, marziale e decisa, Io so chi sono con in evidenza gli insoliti fiati e l’orchestrale Iceberg non lasciano molto. La conclusiva La terra promessa si scioglie di colpo porta l’album a un livello superiore. Altro brano poetico giocato sui noise e sull’incidere di un piano che rimane dentro e fa venire voglia di risentire all’infinito il brano.
«Io non so se è sbagliato o no
solo che è cambiato
il mio sguardo il mio sorriso so
che fuori non c’e’ più».
La mente, per alcune scelte sia poetiche che musicali, va ad Oceano di gomma (brano di “Non è per sempre”).
Viene voglia di risentirlo all’infinito.
Quattro anni intensi, di ritorni e collaborazioni (Greg Dulli, Steve Wynn su tutti), la produzione impeccabile di Tommaso Colliva e il solito romanticismo ruvido condito dall’ironia che forse era da Germi che non usciva così prepotente, portano gli Afterhours a un album discutibile e coraggioso.
La preziosità dei testi e la violenza che riescono a dare le parole in buona parte dei brani, fanno ritrovare il gruppo che ha sempre deliziato tutti i “palati”. Tutto da vedere dove porteranno certe sperimentazioni, se rimarranno lì da sole in attesa di future riscoperte o avranno un ben più solido seguito, magari in territori appena appena accennati. Io mi risento l’ultimo La terra promessa si scioglie di colpo e credo che lo lascerò il repeat per un bel po’.
(Raffaele Concollato)