Cinquant’anni di carriera su settanta di vita sono un bel traguardo per chiunque, ma quando ti chiami Barbara Joan Streisand – per tutti poi Barbra, o anche “Babs” – nata a Brooklyn il 24 aprile 1942, questi cinquant’anni sono pieni di avvenimenti che potrebbero bastare per dieci vite almeno.
Gli inizi sono tutt’altro che facili: a parte la guerra in pieno corso (siamo appena cinque mesi dopo Pearl Harbor) la famiglia è di modesta condizione, giacché il padre Emanuel Streisand  è un professore di inglese, mentre la madre Diana Rosen – figlia di un cantore di sinagoga – è fanatica del mondo dello spettacolo; purtroppo il padre muore quando Barbra ha solo quindici mesi di vita, e questa perdita peserà in vari modi sulla vita e sulla carriera della figlia.
Curiosamente, Barbra  Streisand è una dei pochi artisti ad aver completato gli studi superiori fino al diploma, e già a scuola si trova in compagnia di futuri geni: un suo compagno nel coro è Neil Diamond, e un suo compagno di classe è il futuro campione mondiale di scacchi Bobby Fischer.

Come molti prima e dopo di lei, Barbra si inserisce nel vivace mondo teatrale e musicale che sta vivendo una fase di grande innovazione – quando lei aveva solo un anno era nato Oklahoma!, il musical che aveva rivoluzionato Broadway – e di vivace interscambio fra le varie correnti culturali; frutto di questo ambiente sarà ad esempio Leonard Bernstein – anch’egli, come lei, ebreo – che si proporrà di rivolgersi ai pubblici più variegati possibile, proprio come in seguito farà Barbra.

A soli diciotto anni il primo successo, in un bar per omosessuali del Greenwich Village, The Lion, che nel giugno del 1960 offriva ogni giovedì sera una gara fra giovani talenti: a chi vinceva andavano quindici dollari, una settimana d’ingaggio, e tutto quello che potevano mangiare e bere, fatto questo che attirò la Streisand – come disse lei stessa “In quei giorni potevo vendermi per una patata al forno” – iniziando quell’amore per il buon cibo che non verrà mai meno.
Alla gara, Barbra cantò A Sleepin’Bee, la delicatissima ballad tratta dal musical di Truman Capote e Harold Arlen House of Flowers, e conseguì il primo dei futuri numerosissimi trionfi. La ballad chiuderà anche il primo album della cantante, e Harold Arlen concederà l’onore di scrivere le note di copertina, non male per una sconosciuta ventenne; il successivo ingaggio sarà ad un altro bar per gay, il Bon Soir, dove avverrà la vera scoperta della cantante e il suo ingaggio per la Columbia.

Gli anni in cui esordisce Barbra sono anche quelli del rilancio di un’altra grande diva, Judy Garland, che non casualmente aveva inaugurato un altro notissimo brano di Arlen, Over The Rainbow, e che il 23 aprile 1961 aveva trionfato alla Carnegie Hall in un concerto storico, fortunatamente registrato e rimasto poi un caposaldo della cultura omosessuale, al punto che il cantautore Rufus Wainwright replicherà integralmente il programma cinquant’anni esatti dopo.

A ben vedere, sono numerosi i punti di contatto fra le due cantanti: entrambe infatti tendono alla ricerca dell’interpretazione senza ombre, con la voce proiettata in uno slancio teatrale a pieni polmoni, quasi a voler raggiungere ogni spettatore personalmente, ed entrambe si trovano a loro agio quando possono affrontare brani dalla bella articolazione melodico-armonica, ricchi di piege musicali da assaporare con struggimento. 

Così pure a livello filmico entrambe gireranno un film dal titolo È nata una stella, sullo stesso schema del successo carico di dolori personali, ed entrambe lanceranno in quel film una canzone di successo: Judy cantò The Man That Got Away – l’ultimo grande testo firmato da Ira Gershwin, fratello di George – e Barbra Evergreen, Oscar 1975 per la migliore canzone (ma in questo caso il risultato filmico fu inferiore alle aspettative, tanto che il periodico Village Voice, giocando sul titolo originale A Star Is Born, lo chiamò A Bore Is Starred, ossia “Una barba è interpretata”!).

Del tutto assente, invece, in Barbra Streisand è il senso dell’umorismo e dell’autoironia che invece la Garland sapeva all’occorrenza sfoderare, anzi come vedremo ora ripercorrendo l’attività dell’artista, lei sembra sempre prendere troppo sul serio la sua arte e la sua carriera, con un perfezionismo pignolo presto diventato proverbiale e una completa mancanza di misericordia per i sentimenti altrui, senza badare se fossero colleghi più illustri o addirittura i propri parenti. Il suo produttore discografico, Bob Mersey, riassunse questi elementi in una frase significativa: “Era una delizia lavorare con lei, aveva un istinto e un senso del tempo incredibili… era una vera “bulla”, non appena sentiva che qualcuno aveva paura mordeva alla gola”.

Questo atteggiamento poteva avere i suoi lati negativi per non dire grotteschi – durante le riprese d Hello Dolly Barbra pretese di dare consigli di coreografia a Gene Kelly! – ma fu anche alla base di scelte artistiche non convenzionali, soprattutto per una donna e per la sua epoca, che volenti o nolenti fecero scuola, sebbene non sempre la cantante ne colse i frutti.
Sin dall’inizio dell’attività teatrale Barbra Streisand viaggia subito in prima classe, quando nel 1962 è notata da David Merrick, leggendario produttore di Broadway (di lui si diceva: “È talmente grande che perfino i suoi fiaschi sono trionfali”), il quale la scrittura per due spettacoli, I Can Get It For You Wholesale – che segna il suo esordio in sala d’incisione, per soli due pezzi fra cui Miss Marmelstein, con cui ogni notte entusiasmava il pubblico – e Pins And Needles. Il successo la porta, come detto, alla Columbia, con cui ancora oggi lavora, unico caso insieme ad un ragazzo anch’egli ebreo ingaggiato l’anno prima di lei, Robert Zimmerman ossia Bob Dylan; dopo un primo singolo, esce The Barbra Streisand Album, fatto rarissimo in un’epoca nel quale i cantanti dovevano aspettare almeno un triennio di purgatorio nel mondo dei singoli prima di passare all’LP, e questo come detto creerà il primo precedente.

L’album già fornisce un preciso ritratto della cantante, del suo mondo musicale a tutto tondo, senza ambiguità o incertezze, a volte talmente assertivo da cambiare i connotati anche a pezzi ormai storici, come l’iniziale Cry Me A River tramutato in un monologo drammatico quanto mai distante dal sensualissimo originale di Julie London; il citato richiamo alla Garland è palese inHappy Days Are Here Again, e in certi punti rasenta addirittura il plagio, mentre la mancanza di umorismo risplende nella versione della marcetta dei tre porcellini, Who’s Afraid of The Big Bad Wolf?, seppure aperta da una simpatica citazione di Pierino e il Lupo di Prokofiev, ma ancora una volta guastata da un cantato quasi impettito. Sorprendono invece i brani più intimi, nei quali la rigorosità di enunciazione della cantante sa farsi morbidamente capace di circondare le melodie con una asciutta grazia non priva di sommesso calore, e qui- oltre alla già ricordata A Sleepin’Bee– spicca il classico di Bobby Scott A Taste Of Honey riproposto quasi come una ballata irlandese, forse in omaggio alla terra natale dell’autore, e lontana anni luce dalla contemporanea, e più muscolare, versione dei Beatles.

Non manca, e anche questo va notato, un gusto per l’insolito e il non-familiare che si evince dalla ripresa di Come To The Supermarket, schizzo finto-cinese firmato nientedimeno che da Cole Porter, quasi a voler evitare il suo repertorio meno battuto.
L’album guadagnerà a Barbra i suoi primi due Grammies, come miglior cantante femminile e come migliore album pop, e nel successivo 1964 – che tutti i suoi studiosi definiscono il suo anno magico – la cantante trionferà a Broadway nel musical Funny Girl (che quattro anni dopo porterà sullo schermo, insieme al suo seguito Funny Lady nel 1975), ritratto della comedienne ebrea Fanny Brice di cui Barbra sembrò all’epoca l’erede naturale: un brano dello spettacolo, People, sarà per sempre associato alla cantante, tanto che pochi altri ne tenteranno una loro versione.

Come detto, nel 1968 inizierà la carriera filmica di Barbra Streisand, che lei preferirà sempre a quella concertistica: già agli inizi lei voleva diventar famosa come attrice, non come cantante, al punto da affermare quasi con cinismo “Cantare non è niente di che. È solo fiato e rumore. Io apro la bocca e vien fuori il suono”, e in seguito dirà che coi film poteva raggiungere pubblici diversi in ogni angolo del mondo: il fastidio del continuare a ripetere sempre le stesse cose ogni sera è il fattore più importante che la tenne lontana da Broadway, dove era nota per la grande incostanza nelle interpretazioni e per la sua tendenza a variare per noia la sua parte, rovinando il personaggio e mettendo in difficoltà i colleghi. 

Parimenti notevole sarà il lavoro per la televisione, con gli speciali My Name Is Barbra e  Color Me Barbra, entrambi del biennio 1965-66, il primo dei quali capiterà appunto nel momento di massima diffusione della nuova televisione a colori, mentre il primo special, con Judy Garland, del 1963, era ancora in bianco e nero; nel giugno 1967 la cantante si esibì di fronte a 135.000 fan per il suo “Happening in Central Park”, il suo ultimo concerto dal vivo per almeno quindici anni.
Purtroppo la carriera filmica di Barbra ebbe inizio in un momento storico del tutto sfavorevole per il genere cui lei era abituata: Funny Girl, infatti, uscì nel 1968, anno che per gli americani fu segnato da avvenimenti sanguinosi come l’assassinio di Robert Kennedy, gli scontri alla convention democratica di Chicago e l’offensiva del Tet in Vietnam; era impossibile non notare la stridente distonia fra questo musical vecchio stile e la brutale realtà quotidiana. Barbra comunque vinse l’Oscar per la sua interpretazione, a pari merito – fatto mai successo prima – addirittura con Katherine Hepburn per Il Leone In Inverno.

Non migliore fu la situazione per  il successivo Hello Dolly!, uscito nel 1969, l’anno di Woodstock e di Easy Rider – nonché dei massacri di Charles Manson – e stavolta per giunta Barbra si trovò surclassata dall’ospite Louis Armstrong, che cinque anni prima, quando il musical aveva debuttato a Broadway (con Carol Channing nella parte poi presa dalla Streisand), aveva inciso il tema su singolo ottenendo un tale successo da scalzare i Beatles dalla cima delle classifiche.

A complicare le cose, la Columbia stessa si era buttata a pesce sul rock, e persone come Barbra sembravano destinate al museo delle cere; la cantante cercò di reagire con un album, Stoney End, sempre del 1969, dedicato al rock più contemporaneo, attingendo al repertorio di Harry Nillson, Randy Newman e Laura Nyro, che fornì il brano del titolo, di cui però apprezziamo assai di più la sincera versione di Linda Ronstadt dell’anno prima su Capitol. Forse per la stranezza di sentire una cantante di musical affrontare questo repertorio, l’album fu un grosso successo e segnò l’inizio di una nuova fase della cantante, quella degli anni Settanta più “impegnati”.

Il decennio esordisce col film What’s Up, Doc? – in italiano Ma papà ti manda sola? – la prima vera prova di artista da parte di Barbra, capace di creare un personaggio da zero senza basarsi su modelli famosi o precedenti interpretazioni, e – saltando ovviamente alcuni passaggi – troviamo poi un altro gioiello in The Way We Were – da noi Come Eravamo -, un titolo diventato subito proverbiale e un film che fruttò un altro Oscar per la migliore canzone: forse proprio qui, a trentun anni, Barbra Streisand trova la sua giusta dimensione, equidistante sia dagli eccessi roboanti di gioventù sia dai mezzi passi falsi del futuro (come il duetto disco con Donna Summer o le collaborazioni con Celine Dione), e sa interpretare la splendida melodia di Marvin Hamlisch cavandone tutti i tesori più nascosti con impagabile grazia, tanto che perfino il finale a cuore aperto risulta singolarmente appropriato.

Oltre al citato È nata una stella, Barbra Streisand si dedicò ad altri progetti cinematografici, spesso da lei prodotti, che però lasciarono una certa sensazione di incompiutezza, o quanto meno di voler passare il segno (si veda The Main Event, con le volgarissime scene di aerobica; il film uscì da noi come Ma che sei tutta matta?, e non fummo in pochi a pensarlo).

Proprio verso la fine dei Settanta, Barbra si interessa alla propria storia quando produce Yentl, storia di una giovane che si traveste da uomo per studiare la scienza ebraica vietata alle donne, e sarà la prima donna a scrivere, interpretare, dirigere, produrre un film e a cantare anche; il film ebbe una gestazione travagliata, perché nacque da un racconto scritto dal grande scrittore ebreo Isaac Bashevis Singer nel 1962, e fu opzionato nel 1968 per Barbra, la quale però riuscì a girarlo solo quindici anni dopo, nel 1983, attirandosi critiche da tutte le parti, in quanto Singer scrisse un’auto-intervista sul New York Times per dichiarare il suo scontento e le numerose deficienze del film, mentre l’acido critico Joe Queenan lo definì ‘una versione rigonfia, con gente travestita, di “Il Violinista Sul Tetto” (e infatti il film fu anche chiamato Tootsie Sul Tetto…). Anche se vinse due Golden Globe, Barbra Streisand fu pesantemente snobbata agli Oscar, che lei avrebbe voluto vincere come regista   visto che mai una donna era stata premiata in questa categoria, ma i tempi – forse – non erano maturi, e l’onore della prima vittoria andrà a Kathryn Bigelow nel 2010 per The Hurt Locker.

Da qui in poi la carriera di “Babs” appartiene alla cronaca dei giorni nostri, con insuccessi- l’album Classical Barbra, infausta escursione nel repertorio “classico europeo” – e successi come Broadway Album, senza dimenticare duetti come You Don’t Bring Me Flowers col suo vecchio compagno di scuola Neil Diamond o la collaborazione con Barry Gibb in Guilty; anche i film si faranno sempre più impegnativi, come Nuts (Pazza) del 1987, in cui vestirà i panni di una ragazza-squillo, oppure The Prince Of Tides (Il Principe delle Maree) del 1991, con la sua sottotraccia dell’abuso ai minori, o ancora The Mirror Has Two Faces (L’amore ha due facce). Ormai però la Streisand ha raggiunto lo status di icona nazionale americana, tanto da meritarsi un’accurata analisi da parte della scrittrice post-femminista Camille Paglia, e anche se il futuro potrà non riservarci grosse sorprese, siamo comunque sicuri che la sua produzione migliore saprà reggere con enorme dignità il passare del tempo.