Ci sono canzoni che in poco più di due minuti riescono a farci capire con illuminante chiarezza come e perché negli anni Sessanta sia esploso il rock, una modalità di espressione musicale che ha travolto e profondamente modificato la cultura e la società contemporanea.
Eleanor Rigby dei Beatles, pubblicata nel 1966 in Revolver, è una di queste canzoni: la necessità di senso, l’emergere delle grandi domande, la riduzione del Cristianesimo, percepito esclusivamente come una ricompensa da vivere in Paradiso e privo quindi di qualsiasi legame con la terra, con il presente. Le nuove generazioni degli anni Sessanta (e già nel decennio precedente gli esponenti della beat generation) non avevano più intenzione di aspettare e rimandare la soddisfazione dei propri desideri.
Dal punto di vista strettamente musicale Eleanor Rigby non si presenta certo come una tipica canzone rock: niente chitarra, basso o batteria, ma un ottetto d’archi che sorregge la voce solista di Paul McCartney, sostenuta nelle parti corali da John Lennon e George Harrison.
L’arrangiamento, che potremmo definire di “matrice classica”, fu curato dal produttore George Martin e rispecchia alla perfezione i contenuti espressivi della canzone: l’ansietà prodotta dal passo serrato degli archi (delle vere e proprie sferzate che accompagnano incessantemente la voce), le dolenti melodie di raccordo che s’insinuano fra le stesse sferzate, nonché la tensione che si genera fra l’accompagnamento e le sincopi della linea vocale. In sintesi, per dirla con le parole di Alan Pollack, un arrangiamento che sembra riprodurre il ritmo di un “sospiro ansioso”.
Decisamente più rock è l’ispirazione musicale di fondo, con una melodia vocale basata sulla ripetizione di brevi pattern ritmici e una struttura armonica semplice (sostanzialmente 2 accordi). In sintesi, una tensione all’immediatezza comunicativa, come accade nella maggior parte delle canzoni dei Beatles.
Il testo è composto da immagini suggestive ed eloquenti che con poche parole tratteggiano i personaggi fin nel loro profondo. Ecco com’è resa l’immagine di Eleanor Rigby, un’anziana signora protagonista della canzone: “Eleanor Rigby, raccoglie il riso/ in chiesa rimasto dopo un matrimonio/ vive in un sogno/ aspetta alla finestra, vestendo la faccia/ che conserva in un vaso accanto alla porta/ per chi è?”.
Una donna sola e triste, che per uscire di casa o affacciarsi dalla finestra ha bisogno di indossare un volto che non è il suo, una faccia che mascheri la sua tristezza e solitudine.
L’altro personaggio della canzone è padre Mckenzie, un’altra figura triste e sola: “Padre Mckenzie sta scrivendo le parole di un sermone che nessuno ascolterà/ nessuno si avvicina/ guardalo lavorare. Rammenda i suoi calzini di notte, quando non c’è nessuno intorno/ a cosa tiene veramente?”
Si tratta di descrizioni che non si limitano alla constatazione del dato, fanno emergere degli interrogativi (“per chi è?”, “a cosa tiene veramente?”) che affiorano in tutta la loro portata nelbridge: “Tutte quelle persone sole/ Da dove vengono?/ Tutte quelle persone sole/ A che luogo appartengono?”.
Sono domande di senso, sull’origine e sul destino, interrogativi a cui per secoli la società occidentale ha avuto risposta dal Cristianesimo, ma oramai nessuno ascolta più i sermoni di padre McKenzie, non solo perché si è perso interesse per cosa la Chiesa abbia da dire in proposito, ma anche perché la stessa Chiesa (o una parte di essa) sembra essersi allontanata dall’uomo e dalle sue domande più profonde. Come si legge nella seconda strofa: “[Padre Mckenzie] a cosa tiene veramente?” (viene in mente T. S. Eliot, che già nel 1934 scriveva nei Cori da «La Rocca»: “È la Chiesa che ha abbandonato l’umanità, o è l’umanità che ha abbandonato la Chiesa?”).
L’ultima strofa della canzone descrive le conseguenze di questo allontanamento fra l’uomo e il Cristianesimo: solitudine e indifferenza. “Eleanor Rigby morì in una chiesa e fu sepolta insieme al suo nome/ Nessuno venne [a vegliarla]/ Padre Mckenzie si ripulisce le mani dalla terra allontanandosi dalla tomba/ Nessuno fu salvato”.
Eleanor Rigby muore in completa solitudine e il prete, descritto brutalmente mentre si pulisce le mani sporche di terra, pare completamente indifferente alla sua sorte.
Ciò che accadde negli anni Sessanta fu l’esito di un lungo processo storico di secolarizzazione iniziato secoli prima. Alle nuove generazioni il Cristianesimo, piuttosto che una risposta alle proprie domande sul destino, il senso e l’origine delle cose (o perlomeno un’interessante ipotesi da verificare al riguardo), apparve come un invito a sopportare le sofferenze del presente, a frenare i propri desideri e a rimandarli a una ricompensa futura, dopo la vita.
Una simile prospettiva venne rifiutata da coloro che fecero dell’“ora”, il now, il loro manifesto programmatico: la vera vita doveva avere a che fare col presente e un Cristo non più vissuto e testimoniato come Presenza, come risposta viva alle domande più profonde dell’uomo, ma rimandato al futuro, ridotto a una ricompensa ultraterrena, non poteva catalizzare a lungo l’interesse delle nuove generazioni.
Da questo punto di vista i Beatles seppero davvero individuare i cambiamenti che stavano occorrendo nel loro tempo.
Ian MacDonald a tale proposito ha scritto: “Spesso rappresentati come produttori di fantasticherie avulse dalla realtà, nei confronti della loro società i Beatles erano, nei loro momenti migliori, più penetranti e realisti di qualsiasi altro artista popolare del loro tempo”.