Grande e triste, forte come una montagna, cristallino come un iceberg. Un iceberg si vede da lontano e incute il senso del “sublime”: una paura misteriosa, troppo grande per noi, troppo ancora invisibile. Ciò che vediamo subito sulla superficie delle acque del sentire e pensare e fare umani, è l’amore per la musica che accompagnò per ottant’anni la lunghissima vita di Albert, senza mai divenire la sua occupazione principale. Quasi una seconda prima natura; quasi l’eco sensibile di un canto al lui stesso incomprensibile.
Che cosa ci nasconde dunque o a che cosa ci invita questo grande del secolo passato? Egli che ebbe come “punti di applicazione” della sua straordinaria energia la filosofia, la teologia, la musica, la medicina?
Mi si permetta qui un cenno autobiografico. Ero poco più di un ragazzo quando “incontrai” Albert Schweitzer per la prima volta vedendolo (per caso?) in una bellissima intervista televisiva, condotta da Sergio Zavoli.
Il grande Dott. Schweitzer era nella sua missione di Lambarenè. Era il Luglio del 1965. Le note della “Toccata e Fuga in re minore” sottolineavano i dialoghi. Ricordo che in quei giorni corsi da padre Alberto Fontana, organista a Santa Croce in Milano, (sarebbe partito per la Costa d’Avorio all’età di 47 anni), per farmi mostrare quella partitura: mi aveva affascinato e dovevo suonarla anch’ io.
Qualche mese dopo, infatti, mi chiesero senza mezzi termini di accompagnare le messe: avevo quindici anni ed ebbi l’onore di suonare il Balbiani-Vegezzi-Bossi di 1.800 canne da poco installato in Santa Croce. Più tardi avrei sempre suonato quella Toccata all’ingresso della sposa, in ogni celebrazione di matrimonio, sorprendendo un poco i vari celebranti, che però forse vi sentivano l’inizio di una vita nuova…
Nell’intervista citata mi colpì, oltre allo stanco camminare del novantenne Dottore fra i “viali” del suo ospedale, una frase: Sergio Zavoli gli domandava, alludendo alla conclusione della mirabile vita (che poi sopraggiunse in ottobre): «le sembra di aver speso bene la sua vita?». Il Dottore rispondeva: «Prima di tutto spero di averla spesa». Mi affascinò questa risposta (eravamo tutti un po’ kantiani): ora riconosco che fioriva su una vita spesa sperando che questo imperativo categorico fosse accetto al Cristo, sempre più lontano nella storia, sempre più irraggiungibile e impossibile contemporaneo come Gesù di Nazaret.
Di qui l’animo grande e triste di Schweitzer, che però è l’animo vero del grande organista e amante di Bach. Del grande di Eisenach l’ alsaziano Schweitzer dice: «…in lui c’è una tristezza profonda e un sognante misticismo». E siamo all’inizio di più strade: parliamo del teologo, del pastore che teneva i sermoni sulla intangibilità della vita anche nelle sue forme più tenui, riflettendo sul comune sentire delle religioni – specie orientali – nella Strasburgo del primo Dopoguerra?
Parliamo del filosofo incantato da Kant, ma debitore, forse inconsapevole, della Sinistra hegeliana fino a negare una possibile vita di Gesù come nostro contemporaneo, come il Cristo di una fede storicamente e storiograficamente possibile?
In fondo l’impegno teoreticamente principale di Schweitzer fu nell’analisi delle vite di Gesù redatte in area per lo più germanica tra il 1750 e il 1890: dove si rileva ovunque una forzatura razionalistica per espungere il miracolo dall’ operare storico di Gesù. Si voleva vedere il progresso dell’Idea del religioso, che sarebbe caduto quale scorza mitologica (il messianismo giudaico) nella via della grande e ultima liberazione dell’uomo. Questo è poi il nucleo dell’ateismo del Novecento.
Oppure parleremo del “Musicista poeta” cioè di Bach secondo Schweitzer? O diremo di Schweitzer organaro? O di lui come medico appassionato all’umanità dolente dei fratelli nell’Africa della lebbra e di altre epidemie e piaghe devastanti specialmente i bambini?
Sulla teologia è stato redatto di recente un dossier su Humanitas del marzo 2009, dove illustri studiosi chiariscono le categorie così complesse che si delineano quando si voglia scrivere un vita di Gesù.
Qui, più semplicemente, si vuol dare un cenno su Bach secondo Schweitzer. In questo caso dire Schweitzer è come dire Bach: tutto il suo impegno di esecutore, di musicologo, di organaro (sic!) è imperniato sul grande di Eisenach.
Questo fenomeno è peraltro abbastanza frequente: quando un musicista si addentra nello sterminato campo dei temi dei testi delle cantate dei concerti per violino solo, per cembalo e violino, decide benpresto di dedicarvi la vita. O, per meglio dire, si rende conto che ne sarà presa la vita intera. Così con G. Gould, con il contemporaneo Bahrami, con la più grande pianista russa del Novecento, Maria Judina.
In particolare quest’ ultima, prima di fede ebraica, poi cristiana, fu capace di incantare Stalin che fece il vuoto attorno a lei uccidendo molti, ma risparmiandola e tenendo care le sue incisioni. Judina fu interprete somma principalmente di Bach, ma grandissima anche in tutti gli autori che affrontò.
In Schweitzer dunque un amore ai testi delle cantate, un percepire dentro quei testi biblici (rimaneggiati a volte non felicemente da Picander): Bach – ci dice Schweitzer – legge, sente, evoca delle immagini con occhi quasi di pittore. Tutto è sentito come da celebrarsi, come appunto sacro rito, liturgia. L’appercezione del respiro religioso della Scrittura come appare nei testi suggerisce una costruzione architettonica. Archi, volte, cordoli, lunette, e ancora guglie, riccioli di marmo, icone, policromie di marmo… Bach porta a fioritura ogni germe che sorprende nei testi, quasi incarnandoli in sé (ma per noi – e qui è veo Maestro).
È uno sgorgare inesausto di temi che vengono cantati accresciuti, rivisitati. Bach, in fondo, respira del respiro delle Scritture e dell’ azione liturgica. Il ruscello (Bach significa “ruscello”!) sembra zampillare di acqua sempre nuova che scende all’ oceano delle anime che verranno nei secoli per saziare la sete di bellezza.
Nel suo bellissimo libro Il Musicista poeta, Schweitzer enuclea una serie di immagini che si aprono in disegni e ritmi sul pentagramma e che attraverseranno tutta la sua musica e la sua vita: dai tratti giovanili ai momenti di splendida senilità.
I temi della calma, della goia, del tentennamento; i colpi della flagellazione, il tripudio (scalette ascendenti) degli angeli; il rantolare della morte (sincopati descendenti). Il male come tradimento, come serpeggiare del serpente (intervalli di seste puntate); il doloroso incedere di Cristo (scale discendenti) sul Calvario;il lamento degli amici sul Cristo morto (cromatismo discendente sincopato)…
Questi pochi esempi fanno dire a Schweitzer che c’è un unico respiro nella musica di Bach e un unico movimento in quattro tempi: l’incarnazione, la passione, la discesa agli inferi e l’esplosione della resurrezione. Ma se questo è l’ Evento centrale della realtà come tale, tutto il mondo, tutte le cose vi partecipano rivestendo la loro propria natura di colori e venature che hanno il sapore e il disegno sempre nuovo della natura: la primavera, i fiori, il galoppo della partita di caccia, lo sciacquio delle acque, la luminosità di un vestito di sposa… Bach scrive anche cantate “profane”: sono in realtà celebrazioni di tutto lo spettro dell’ umano, così che non c’è nulla di non sacro: tutto è sanabile e salvo, fino a una celebrazione cosmica anche delle munuzie.
Bach è “il Musicista pittore”: con la sua tavolozza dipinge l’ora della sera, la forza giovanile dela primavera, l’ inverno e la morte dell’ anno vecchio subito risonante della baldanza dell’ anno nuovo; le onde del Giordano, la calma placida del lago di Tiberiade con i rintocchi delle ondine sulla spiaggia…
Schweitzer fu bersagliato dalla critica formale, che vedeva il “ bello musicale” come assolutamente staccato da ogni dinamica del sentimento: ma come chiedere questo astrattismo a chi vive e sente profondamente le problematiche esistenziali della teologia luterana? Del resto l’anima tedesca è fondamentalmente sentimento: lo rivelerà la tempesta del romanticismo. Si critica questo voler vedere quasi sempre un Bach descrittivo. Eppure il fluire della musica europea stava passando dal melodramma, attraverso Beethoven e Brahms alla tragigità wagneriana e alle coloriture pre impressionistiche di Liszt. Bach dolcissimo e appassionato nelle arie (troppo italiane dice Schweitzer) rimane un architetto ben fornito di matematica e compassi…) Eppure anticipa soluzioni rivoluzionarie che penseremmo solo inaugurate dal genio irrequieto e irrisolto di Beethoven: il compositore delle cantate comincia dei brani su un intervallo armonico di settima!…
Bach contempla ciò che avviene: la redenzione è una ristrutturazione delle cose attraverso l’edificazione di un nuovo universo. Lo stesso desiderio della Morte (“Vieni, dolce morte) non è disfatta dell’ impresa umana, ma sospiro del compimento. Da questo punto di vista è interessante confrontare questi passaggi della consegna di sé stessi (“vieni dolce morte”) con la rabbiosa pretesa di chiamare dolce morte l‘eutanasia…
Questa ristrutturazione del reale corre come una nuova strada fianchegiata dai 48 tigli delle 24 coppie di preludi e fughe che presentano al mondo la nuova musica, il temperamento equabile: il clavicembalo ben temperato. È la strada indicata che immette nell’orecchio naturale dell’uomo un sentire nuovo con una leggera forzatura che apre alle cose nuove: una spinta al desiderio di infinito con appunto la nostalgia inesausta della Totalità. Il sistema ben temperato, non è perfetto, ma questa sua ferita corrisponde perfettamente alla nuova accelerazione che la storia subisce nella liturgia cosmica cui sopra si accennava…
Bach conosceva bene le problematiche della teologia luterana, eppure si impegna a riscrivere le parti comuni della messa cattolica in latino, accogliendo il sapore di alcuni intevalli dei modi gregoriani; mostrandoci che la musica, il canto non sono cattolici o protestanti, perché è la persona stessa che sente, vive e soffre e il Crocifisso parla a tutti.
Schweitzer organaro? La passione per lo strumento principe della liturgia lo portò a guardare, smontare, restaurare: fu chiamato in vari Paesi per consulenze sul restauro e sul perfezionamento degli organi. Questo mettere le mani nei mantici, sui tiranti, nelle ance, sui somieri; questo reinventare le disposizioni foniche e raffinare i timbri era un sentire la materia che doveva far cantare la musica di Bach.
Questi aveva sognato uno strumento che avesse del violino il fraseggiare, dell’organo le varietà timbriche e la potenza, del clavicembalo la brillantezza; Avrebbe sognato un cassa dell’espressione (Che fu fabbricata nel romanticismo). Il violino era il termine di assoluto paragone: nei concerti per violino quante sono le note in triadi o più formazioni di accordo (si pensò ad archetti speciali) Bach come uno scriba che trae dal suo tesoro cose vecchie e cose nuove?
Che l’arte fiorisca sulla materia e dalla materia quale disegno di ciò che l’anima umana vi appercepisce è vero: è realismo come ricerca di una personalizzazione della materia stessa. Un cogliere la stessa come signata quantitate meae humilitatis: materia che porta la cifra del mio umile abbassamento ad essa, come de-vozione di essa, come offerta a Dio creatore di ciò che io manipolo, del mio gesto poetico (poiesis). Materia creata per il canto, per composizioni che pervadano l’umano in tutte le sue pieghe e sfaccettature.
Tutto diviene canto se l’intenzione è mettere il proprio talento a gloria di Dio: “S.D.G.”. Soli Deo Gloria era la formula che Bach apponeva al termine di ogni sua opera.
Il Musicista poeta rimane un testo basilare per tutta la critica e la riscoperta di Bach fino alla filologia più rigrosa. Fu scritto nel 1905 al termine di un lungo processo: la prima ricoperta del Kantor ad opera di Mendelsohon .Lì era un sentire in chiave moderna: con la sensibilità e la strumentazione romantica e post-romantica. Come a dire: partiamo sempre dall’ oggi, dall’ uomo vivo che respira, soffre,opera nel suo esser-gettato nel mondo e vuol rivelare i grandi rivivendoli.
Si aprirebbe qui un grande discorso sulla musica sacra e gli strumenti da usare nella liturgia: espressione e geometricità si devono coniugare nella costruzione ad esempio di nuovi organi, che abbiano i timbri di questa grande tradizione tedesco-francese- italiana. Certi eccessi di rigore per la costruzione di strumenti d’epoca non tengono conto che anche le cose sono in qualche modo offerenti, pazienti interpreti dell’ offerta liturgica. L’organo in una chiesa non è mai uno strumento a sé stante ad uso solo di concerti; tra l’ altro la quasi totalità della musica per organo è sacra…
Se Schweitzer accosta Bach, padre della musica, a Michelangelo, noi potremmo dire che Bach è il maestro di color che cantano; mentre Schweitzer è maestro di color che imparano. In tutto ciò cui si applicò, cercò di studiare indagare, cercare tutto con un’ intransigenza sistematica veramente germanica, anche se – da alsaziano – dice di dover parlare e scrivere e pnsare in due lingue…Alla fine della guerra (fu anche prigioniero) gli cambiarono nazionalità; e fu francese…
Quest’ ultimo accenno all’ arte oprganaria vuol essere una voce per una ripresa della costruzione di splendidi strumenti liturgici nonchè di restauro accurato delle centinaia di organi che da anni sonnecchiano nella polvere di tante chiese. E’ necessaria maggior pratica musicale nei seminari, diffusione della musica sacra e organistica fra i giovani mediante concerti supportati da spiegazioni e introduzioni ad un mondo stupendo, ma molto dimenticato per via di una trascuratezza non certo imputabile allla Riforma liturgica del Concilio Vaticano II. Il dialogo con il mondo contemporaneo passa in modo privilegiato attraverso l’ arte: quanti musicisti tornerebbero alla viva Fonte del Bello in un percorso che è il talento che si trovano per le mani!