Un’ora e 50 minuti scarsi a racchiudere in panoramica una carriera lunga 35 anni, compito tutt’altro che semplice. Una serie lunghissima – pure troppo – di album la cui quantità si è fatta estenuante con quella maniera recente che ha preso corpo per il musicista partenopeo a partire dalla seconda metà degli anni novanta. Fino ad allora (grosso modo fino al bellissimo “Un uomo in blues” e in parte fino a “Che Dio ti benedica”) il dio segreto delle sette note ha espresso un puro talento della nostra musica in grado di misurarsi con i grandi americani di quel gravido filone fusion implicato con il soul, il funky e la black music in triangolazione stretta con il latin-jazz.
Fu come se una segreta società sonora capeggiata da Weather Report, Steely Dan e Gino Vannelli si fosse avventurata in un viaggio folle e incantato all’esplorazione del mediterraneo più radicato e verace con la complicità di musicisti di prim’ordine (i De Piscopo, gli Esposito, i Senese, gli Amoruso). Quel che si dice un incontro impossibile da concepire, ma straordinario da vivere e da gustare all’insegna di quel tipico e indecifrabile confondersi delle acque proprio della grande arte. Visione trasfusa nella realtà e realismo trasfigurato in impeto visionario.
E in seguito quella trasformazione in garbato e più rassicurante cantastorie di quel romanticismo di ritorno dei Novanta più rilasciati, quasi a incarnare un ritrattista ufficiale dell’anima brulicante ed estemporanea della movida metropolitana. Confetti musicali a gogo, gran senso dei tempi dell’affabulazione di un pubblico compassato e flemmatico. Cose belle, altre dignitose, altre ancora un po’ languide. Tutta questa fascinosa doppiezza in questi 110 scatti di lancetta.
Lo show – portato nelle maggiori metropoli italiane in questi due mesi, preceduto da un nuovo album (“La grande madre”) che alterna qualche bel momento a tanto mestiere e un po’ di astuta routine – ha inizio con un medley solitario nel quale il nostro alla semiacustica dispensa mordi e fuggi di brani più o meno memorabili dalle bellissime “Invece no” e “Quando” a quella morbida apoteosi senza tempo di “Se mi vuoi”.
Il tutto termina con una ancor più breve “Putesse essere allero”, in versione cameo, ma efficace quasi fosse una citazione di antichi e dimenticati versi. Non coglie nel segno invece la riedizione in pillole di una “Quanno Chiove” ridotta a patinato spot con tanto di griffe e un Daniele in una veste di crooner non proprio azzeccata.
E se “Coffee time/’O fra” mette in campo un tentativo a tratti apprezzabile, ma non trascendentale di riappropriazione di glorie strumentali passate, è con le migliori espressioni del Daniele accurato selezionatore di pop d’alto profilo che lo show prende quota. Scorre dolce, ammiccante e ben giocato l’easy listening di prima scelta di “Melodramma”, “Sara”, “Dubbi non ho” e “Che male c’è”.
Ma è con il serrarsi del linguaggio sonoro che la lenta ascesa si trasforma in decollo. L’intimismo sottile si fa d’un tratto intimo e denso realismo in una ”Napule è” che si salda magicamente al bel dettato pianistico d’autore della nuova “Due scarpe” e al tono epocale di una “Anna verrà” ridisegnata in staffetta con l’ironia caustica di “Se domani pioverà”.
Un concentrato di forza e tensione che si definisce sempre più nella sezione posta a trequarti con il nostro seduto con slide guitar a tracolla a interpretare e orchestrare molteplici quadri sonori di vario respiro. Da una “Je so’ pazzo” grondante di bluegrass a una “Boogie man” che reca cenni rag sino alle riedizioni in codice folk/blues di “Io per lei”, “A me me piace ‘o blues” e “Yes i know my way”.
In fondo alla strada un finale che dilaga tra ritmi allegri più convenzionali (“Che Dio ti benedica”) e sfavillanti trame rock-blues e fusion d’antan. “La grande madre” è un interessante pastiche della seconda maniera funky con il distintivo lessico rock della prima suggellato da un frenetico solo finale.
Il primo bis “Toledo” (incluso in “Bella‘mbriana del 1982) riporta alla luce il pastoso lirismo sonoro del Daniele storico, quel sapiente divulgatore peninsulare della grande fusion d’oltreoceano (non a caso nella versione originale del brano era presente al sax soprano Wayne Shorter).
Una lead guitar dal tratto ricco con virate brucianti e corpose a scolpire il momento davvero memorabile del concerto insieme alla incontenibile contaminazione ritmica di “A testa in giù” che rappresenta l’autentico centerpiece della prima parte. Il tutto con lo smagliante supporto di una band di buon livello nei contributi d’atmosfera (Rachel Z e Gianluca Podio rispettivamente a piano e tastiere) e di splendido impatto in quella ritmica con Solomon Dorsey al basso e lo straordinario Omar Hakim alla batteria.
Meritato tripudio d’applausi con lo spigliato bis finale rappresentato da “Niente è come prima” singolo attualmente in promozione, a concludere un concerto che ritrae senza censure un bel compromesso di un’avventura artistica che – come quella di tanti grandi – ha sposato il consuetudinario allo straordinario.