Chi era veramente la povera e grande Donna Summer (al secolo LaDonna Adrian Gaines)? Un prototipo delle dive estreme e sboccate di oggi o piuttosto icona di estinta eroina in bilico tra sex symbol e fragilità latente? Oggi la si potrebbe comodamente (e stupidamente) parafrasare come esponente de “l’amore ai tempi delle prime provocazioni post rivoluzione sessuale”. Provocazioni in fondo speculari a quelle di oggi, o forse no, perché ogni tempo ha la sua provocazione come la sua gestione è del resto squisitamente politica.  Procede di pari passo con nevrosi rappresentative e policies della riuscita sociale.



Certo, ieri come oggi c’era il minimo comun denominatore del marketing senza fine, c’era e c’è come l’intento di fondare la grande catena della ristorazione di bisogni sempre più irrequieti, impazziti, come un franchising atemporale di desideri sfiancati e sfiancanti.
Ma come oggi qualsiasi cosa, provocazioni comprese, pretende di essere classificato, archiviato e migliorato in un grande magazzino della prestazione sensazionale, in quell’albore delle libertà schizofreniche risaltava invece un bisogno come mancanza, come necessità di coltivare un seme di libertà nel segreto, fuori dai riflettori.



Forse quella Donna Summer che era chiamata algida, sintetica e inarrivabile (come da mini-coccodrillo di ieri sul sito del Corriere), viveva una inarrivabilità nei confronti di se stessa come quella dei veri grandi, come quella dei grandi artisti schivi non per posa, ma per profonda necessità di dissotterrare la parte di sé che non vuole lasciare fuori nessun pezzo del proprio umano involucro.

Quella che oggi è la tipologia di sovraesposizione di una Lady Gaga inaugurata anni fa da Madonna, quella che vuole portare al centro della scena quel sé stesso come puro surrogato, come entità collusa con la dimenticanza eterna del proprio mal di pancia esistenziale, ieri era quel volo d’angelo su palco come improvvisa rivelazione dopo lunga assenza e prima di un nuovo congedo dai riflettori per continuare quel personalissimo pellegrinaggio della ricerca di ogni frammento di sé.



Ecco perché con il passare degli anni c’era e non c’era, ecco perché negli anni il progetto d’artista cercava la strada insolita e desueta di una controtendenza, di un anti-marketing distante dalle rampantissime colleghe di cui sopra, ecco perché era divenuta nel tempo una grande, ma di nicchia.

Quello che in una forma mentis “madonnara” è fiutare la tendenza per sfangarla e trionfare nella giungla discografica, in Donna Summer era la contaminazione come continua sete da soddisfare, come inquietudine da rincorrere.
Proprio come nei grandi ensemble a lei contemporanei quali Chic e Earth, Wind and Fire seppur con accenti e strutture differenti, in lei era – sul battito sintetico tipico di Giorgio Moroder – un aprirsi a melodie larghe da ballads cinematografica (la bellissima “Down deep inside” del 1977) o a stranite complicità con storia del rock (la celeberrima “Mac Arthur Park” di Richard Harris).

Quello che nelle indefesse starlette della provocazione a buon mercato è la ricerca eterna della “Love to love you baby” della situazione, nella indimenticabile Mrs. Gaines è stato un avventurarsi sul filo del rasoio tra morbido slow e psichedelia con la splendida “Dim all the lights” o negli ardimenti disco-rock di “Hot stuff”, fino al bel tentativo di riscrivere il proprio itinerario nella decade successiva con il piccolo gioiello “Dinner with Gershwin” (1987) scritto per lei dalla grande Brenda Russell.

Come personalissima preferenza di una carriera merita una particolare attenzione quell’irresistibile innesto tra disco, tip-tap musical e gangster movie di “I remember yesterday”, qui in una memorabile performance live italiana del 1977 dove la nostra sfoggia tutto il suo armamentario di sguardi e di moine interpretative. Che il cielo l’abbia in gloria.