Il Teatro alla Scala sta realizzando un’interessante serie di opere di Benjamin Britten. Sono passati quasi 40 anni dalla morte del compositore che con Richard Strauss e Leos Janaceck, può essere considerato uno dei tre maggiori grandi autori del teatro in musica del “Novecento storico”. Inoltre, una delle sue opere più note “The Turn of the Screw” (“Il giro di vite” dall’omonima novella di Henry James) nasce da una commissione del Teatro La Fenice di Venezia (nell’ambito della Biennale di musica contemporanea) quando (e non in tempi tanto lontani: la “prima” ebbe luogo il 14 settembre 1954) i teatri italiani commissionavano capolavori ai maggiori compositori internazionali. Sotto il profilo personale, Britten era molto legato all’Italia.
In occasione del trentennale dalla sua morte, la Fondazione Parma Capitale Europea della Musica ha organizzato un mini-festival, affidandolo alla bacchetta di Bruno Bartoletti e alternando “The Turn of the Screw” con il “War Requiem” (ascoltato, peraltro, pochi mesi prima a Roma eseguito dall’orchestra dell’Accademia di Santa Cecilia guidata da Antonio Pappano).
L’iniziativa della Scala è importante perché sino a un decennio fa Britten era raramente di casa al Piermarini non certo perché la sua musica non riscuota il favore del pubblico italiano. Il suo stile musicale eclettico non rifiuta mai la scrittura tonale ed è accattivante anche per chi non ha dimestichezza con le convenzioni della musica del Novecento: pur continuando nella grande tradizione britannica iniziata con Purcell, fa propria (nel teatro in musica) la tecnica di Berg di adottare la forma di un tema su cui costruire ciascuna scena inserendo molteplici variazioni, e intercalando le varie scene con intermezzi indipendenti che servano da elementi di unificazione musicale e drammatica. Altro aspetto fondante è la capacità di ottenere il massimo colore e calore orchestrale con il minimo di organico (unicamente 13 elementi ad esempio in “The Turn of the Screw” ed una versione a organico ridotto per “Billy Budd” pur concepito, inizialmente, come un grand- opéra).
Grande attenzione, poi, alle voci. Pur nel rispetto delle convenzioni, riscopre il controtenore e lo accompagna (in “A Midsummer Night’s ream”) in duetti estatici con un soprano di coloratura. Oppure, in “Billy Budd”, utilizza 17 voci maschili (5 tenori, 8 baritoni, un baritono basso e 3 bassi) e nessuna voce femminile, affidando la vocalità chiara a un quartetto di adolescenti e dieci fanciulli che non cantano, ma chiacchierano sullo sfondo. In “The Turn of the Screw”, invece, le voci sono quasi esclusivamente femminili (tre soprani e due voci bianche) con cui contrasta un baritenore. Naturalmente il metodo di organizzazione cambia quando si tratta di musica concepita per essere eseguita in chiesa (Britten era cattolico praticante) in cui il pubblico viene considerato non in veste di spettatore ma di compartecipe all’azione liturgica; quindi, alcune parti erano pensate perché eseguite dall’intera congregazione.
Britten si poneva, incessantemente, il problema di come far vivere il teatro in musica e darle un pubblico in un’epoca densa di tante altre sollecitazioni (dal cinema, alla Tv, alla riduzione dei tempi e dei costi dei trasporti e, quindi, all’aumento del turismo). Per questa ragione, già nel 1946 riapre il Festival di Glyndebourne nel Sussex (ora diventato il più esclusivo dei festival musicali: non accetta sovvenzioni pubbliche e la lista di attesa per diventarne soci è di 20 anni). Nel 1947 crea l’English Opera Group – una compagnia itinerante che con pochi mezzi potesse portare la lirica in città anche minori della Gran Bretagna (ebbe gran successo pure in Svizzera ed in Olanda). Sempre per questo motivo, pur considerato “compositore di Corte” (e una Corte protestante), si trasferisce, con il suo compagno di vita, il tenore Peter Pears, ed il suo librettista preferito, il poeta Eric Crozier, nella piccola Aldenburgh, nel Suffolck, dove quasi tutte le sue opere vengono pensate per la “Jubilee Hall” (300 posti e senza una vera buca d’orchestra, sino a quando non venne ampliata in occasione della prima di “A Midsummer Night’s Dream” nel 1960).
Ma torniamo all’iniziativa scaligera. Nelle ultime stagioni sono state proposte due eccellenti produzioni di “A Midsummer Night’s Dream” e di “A Death in Venice” che hanno riscosso grande favore di pubblico e di critica. Sabato 19 maggio arriva “Peter Grimes”, il primo dramma in musica che impose Britten all’attenzione mondiale. E’ una nuova produzione firmata firmato dal regista Richard Jones e diretta da Robin Ticciati. “Peter Grimes” è l’opera più famosa ed eseguita di Britten , ma è comparsa alla Scala solo tre volte nei quasi, settant’anni dalla sua composizione (1944-45): nel marzo 1947 in versione italiana diretta da Tullio Serafin; nel marzo 1976, portata dalla Royal Opera House Covent Garden di Londra in tournée a Milano, con Colin Davis sul podio; infine nel giugno 2000 con la regia ospite di JohnRichard Schlesinger, direttore Jeffrey Tate.
Lo spettacolo firmato da Richard Jones, uno degli uomini di teatro più importanti, stimati e premiati del Regno Unito, è anche il primo che la Scala abbia mai prodotto su Peter Grimes e debutta nel cartellone d’opera il giovanissimo Robin Ticciati, nuovo Direttore Musicale del Festival di Glyndebourne dal 2014, già sul podio in tre programmi sinfonici delle Stagioni della Filarmonica 2005, 2006 e 2008. Torna invece alla Scala il tenore John Graham Hall dopo il personale trionfo della scorsa stagione come Aschenbach inDeath in Venice di Britten, ruolo e prestazione che gli sono valsi quest’anno il Premio Abbiati dei Critici Musicali Italiani. “ Peter Grimes”, in particolare è, con una delle due edizioni di “Billy Budd” e con “Gloriana”, una delle poche opere per grande organico di Britten, il quale cercava l’essenziale delle orchestre ridotte all’osso nella convinzione che il teatro lirico avrebbe potuto sopravvivere unicamente contenendo i costi ed ammortizzandoli grazie a “touring companies” che avrebbero portato lo stesso spettacolo in scena su più piazze. “Peter Grimes”, rivolta al grande pubblico, segna l’inizio dell’eclettismo magico di Britten. In effetti, nel 1945 “Grimes” era rivolta al futuro: sviscerava temi nuovi con soluzioni musicali nuove proprio perché eclettiche ed in cui per la prima volta dai tempi di Purcell sfruttava tutta la musicalità della lingua inglese;.In “Grimes” – ricordiamolo – non c’è “happy end”: il protagonista (innocente dei crimini di cui è accusato) viene indotto al suicidio in mare mentre il borgo torna tranquillo (ora che il “diverso” non c’è più) alle sue occupazioni di sempre. Non manca , però, un velo di pietà cristiana nei confronti del “diverso”.