Questa volta, si può davvero dire che la bacchetta fa la differenza. Attila di Giuseppe Verdi è sbarcato a Roma il 25 maggio per due cicli di rappresentazioni, il primo sino a 5 maggio e il secondo a cavallo tra luglio ed agosto. La regia (Pier Luigi Pizzi) e gran parte degli interpreti non cambia: Riccardo Muti dirige il primo ciclo, Donato Renzetti il secondo. È la quarta volta che questo lavoro composto per La Fenice da un Verdi trentatreenne viene messo in scena dal Teatro dell’Opera di Roma.
Nel 2005, recensendolo su Milano Finanza scrissi: Punto dolente è il maestro concertatore, Antonio Pirolli, a lungo alla direzione musicale dei teatri di Ankara e Istanbul. Temendo una direzione bersagliera, smussa un po’ tutto sino al fine. Dove di fuoco ne mette anche troppo. La sera del 25 maggio, invece, il piglio di Riccardo Muti si è avvertito sin dall’introduzione orchestrale in cui la tinta cupa dei violoncelli e dei fagotti ha correttamente dominato il golfo mistico. Di ottimo livello, poi, l’equilibrio tra buca e palcoscenico. Buona la decisione di dividere questo lavoro diseguale in due sole parti, accentuandone il ritmo. Ascoltai una buona concertazione di Attila da parte  di Riccardo Frizza nel 2010, una da dimenticare di Andrea Battistoni pochi mesi dopo. Ancora valida quella di Anton Gaudagno del 1976 (ne esiste una rara registrazione effettuata a Washington).



Pur se tratto della drammaturgia di questo allestimento di Attila in altra sede, è utile ricordare che l’opera  ha avuto alterne vicende nella considerazione sia del pubblico sia della critica. Verdi  la compose su un mediocre libretto di Temistocle Solera (a cui rimise mano Francesco Maria Piave). Si basava su un dramma eroico del tedesco Zacharias Werner. Dato che gli unni potevano essere  tra i suoi pro-genitori, Werner  non doveva avere tanto in antipatia né il barbaro re né le armate sotto le quali, secondo la leggenda, il suolo non fioriva più. Inoltre, l’opera era stata commissionata da La Fenice di Venezia, dove ebbe la “prima” il 17 marzo 1846; allora la città lagunare (parte del dramma  si svolge  ad Aquileia) era parte integrante dell’Impero austro-ungarico, la cui censura non ravvisò nulla di disdicevole né nel testo né nella musica.



Nonostante ciò, è stata erroneamente considerata, per decenni, come l’opera risorgimentale “par excellence” di Verdi; questo merito (più presunto che effettivo) le assicurò fortuna  sino al 1870 o giù di lì seguito da un lungo declino sino a tempi recenti. Riapparve, in effetti, negli Anni Cinquanta.
Negli Usa, diventò un cavallo di battaglia di Justino Diaz e di Beverly Sills. In Europa, e in Italia, di Samuel Ramey, Nicolai Ghiaurov, Pietro Cappuccilli, Ruggero Raimondi, Christina Deutekom, Cheryl Strudel. In Italia è stata “ripescata” da Muti e Pizzi al Maggio Musicale Fiorentino all’inizio degli Anni Settanta; Muti e Pizzi ne hanno promosso la diffusione in questi ultimi quaranta anni circa.



È un’opera per voci più che per orchestra. Anche nell’Ottocento la critica inglese e francese paragonò alcuni passaggi alla “fanfara dei bersaglieri”, nonostante, nel lavoro, Verdi avesse eliminato la banda (quasi sempre presente in opere precedenti) e limitato il ruolo degli ottoni. Pochi i momenti strumentali descrittivi, pure se la laguna e le alture (con l’incontro tra Attila e Papa Leone) ne fornissero abbondante materia. Domina il melodramma a pezzi “chiusi”, scene con aria cabalette e concertati per dare sfoggio al virtuosismo dei cantanti; la protagonista sarebbe dovuta essere la Giuseppina Strapponi, ma la parte (estremamente ardua) venne ceduta  a Sophie Löwe.

Poco risorgimentale – a pensarci bene – la vicenda. Da un lato, un tentativo di scambio politico – oggi si parlerebbe di “pateracchio” – tra il generale Ezio che appoggerà Attila nella conquista del resto del mondo se l’Unno gli lascerà l’Italia (che intende unificare). Da un altro, la vicenda di Giuditta ed Oloferne trasportata in pieno medio-evo; la vergine Odabella, con la complicità del fidanzato Foresto, irretisce l’unno o lo ammazza.

Nelle interpretazioni moderne, Odabella appare attratta fisicamente ed emotivamente da Attila. Tra Idar Abdrazakov (Attila nella edizione romana) e Giuseppe Gipali (Foresto), poche donne avrebbero esitato a non scegliere il letto del primo. Per di più, il tenore è trattato abbastanza male nella partitura  (rispetto al ruolo centrale che ha in altre opere del Verdi trentenne): due arie piuttosto strillate nella seconda parte.

Sotto il profilo vocale, Abdrazakov è un Attila pieno di sfumature, dal fraseggio accurato, dagli acuti controllati, dalla discesa elegante in tonalità gravi e dal legato sensuale. Gipali, invece, il 25 maggio non era in una buona serata, specialmente: uso eccessivo del falsetto, troppi “do” di gola nella prima parte, forzature per  essere stentoreo nella seconda.
Anche nell’agosto 2010, a Macerata, Gipali mi era parso un più schiacciato tra l’Attila fortemente erotico di Nmon Ford e la Odabella sensuale di Maria Agresta. Di grande livello, in questa produzione, Odabella di Tatiana Serjan (un vero soprano drammatico di agilità) e Nicola Aliamo (un Ezio con tutte le doti del buon baritono verdiano). A Muti il merito di rendere musicalmente credibile, questo ineguale pasticcio di un Verdi frettoloso e con l’urgenza di guadagnare per saldare debiti.