In questi giorni mi sono dedicato a un ascolto attento degli ultimi album di due esponenti del moderno pop-rock d’autore anglosassone e mi sono trovato a scoprire come la messa a tema – schietta senza fronzoli o giri di parole – del senso della vita o della sua mancanza non sia più da tempo prerogativa della musica italiana o comunque della sua gran parte, ma sorprendentemente di un’area geografica che per storia e attitudine è rimasta perlopiù affrancata da una tradizione (quella cristiana) che ha posto in maniera netta e drammatica quell’umano aut aut. Nerina Pallot e Dido, con le dovute differenze, sono entrambe artiste britanniche, autenticamente britanniche nella loro formazione, essenzialmente britanniche nel portamento personale e musicale.
Ciò che sorprende immergendosi nel pentagramma e nelle tematiche di ciascuna delle due, è l’affiorare – ognuna con i propri accenti, slanci, patrimoni ed esiti altrettanto personali – di quella grande alternativa. Ed è quel quid che da tempo sembra mancare alla musica d’autore italiana sia essa più o meno recente per quanto seguita e amata dal sottoscritto (dovute eccezioni fra gli altri i Luca Carboni, i Niccolò Fabi e i Pacifico trattati di recente su queste pagine, oltre che certi cantautori di vecchia generazione). Ecco allora queste due strane e lontane protagoniste di un riaffacciarsi dell’interrogativo più estremo e ricorrente nella storia dell’umano.
Dido Florian Cloud de Bounevialle O’Malley Armstrong nasce il 25 dicembre 1971. Nota al grande pubblico semplicemente come Dido, si forma dalle viscere di certa tendenza della british electro-music britannica di metà anni Novanta. Prodotta dal fratello Rollo Armstrong (regista del progetto Faithless, un trademark di quel periodo), si impone tra il 1999 e 2003 con i vendutissimi “No angel” e “Life for rent” portando in auge un filone melanconico e friabile di un pop dotato di venature elettroniche, giocato sul fascino discreto della nostra, ma compromesso dalla sua collusione con la nuova civiltà della canzone docile ed esangue da spot telecomunicativo.
Solo tre album (con il prossimo in cantiere da tempo, ma stoppato sine die dalla recente maternità) e tra questi l’ultimo “Safe trip home” pubblicato a fine 2008 che non sfonda a livello di vendite come i predecessori, ma che, guarda caso, segna una svolta interessante e non ovvia nel percorso artistico della cantautrice. Le composizioni, di impronta sempre ben riconoscibile, assumono una forma più distintiva e caratterizzata, la voce si fa più densa e personale.
Canzoni buone e anche qualcosa di più, episodi di routine, svagate escursioni lounge e finalmente le prime tre vere grandi canzoni del suo repertorio. “Us 2 little gods”, “Let’s do the things we normally do” e “It comes and it goes”. Vorrei qui soffermarmi su quest’ultima e sulla sua bellezza semplice, fluida e risoluta. Uno scorrere dolce, suadente e fiabesco portato da una soffice cadenza ritmica e da inserzioni sottili di archi a lievitazione graduale, voce densa e pastosa che sottolinea le fasi sospese centrando la scena e con essa il tema lirico. Tutto viene e va, anche quel che di meglio c’è in noi, si perde l’attimo giusto, nulla si possiede e quando se ne va rimane una lacerazione vera che finisce per restare a un livello puramente epidermico privo di un vissuto che raccolga quella provocazione in tutta la sua durezza e consistenza (“Tutto viene e va, non ho modo di trattenerlo, non c’è nulla che io possegga, e rimango spezzata quando se ne va”).
Conseguenza di questa caduta di senso è allora la ricerca di una felicità a scadenza ben descritta nel folk allegro e sciolto di “Us 2 little gods” “(“solo questa vita, non ne ho bisogno di un’altra, solo questo giorno, non ne ho bisogno di più, solo questo momento, fermiamolo tutto qui, ho avuto la mia parte”) o nella bella e incisiva scrittura di “Let’s do the things we normally do”, ballad dall’andamento mosso dove un certo fatalismo si mescola a un riconoscimento chiaro e semplice che sembra sfuggire di continuo come ben sottolineato dalla musica che in coda disegna una efficace ondulazione psichedelica dal piglio quasi ossessivo.
Nerina Natasha Georgina Pallot da Londra classe 1975, alla ribalta delle cronache discografiche come Nerina Pallot, fascino etereo e intenso da miste ascendenze anglo-indiane, rappresenta uno di quei grandi e bellissimi misteri che il mondo della musica ci mette di mezzo di tanto in tanto. Una visibilità perlopiù confinata a livello della grande isola di provenienza e solo di riflesso estesa a sguardi curiosi e attenti oltreconfine, si impone nei piani medio-alti delle charts britanniche nel 2006 con il singolo “Everybody’s gone to war” che riporta in auge (n. 21 UK album charts) un album – “Fires” – pubblicato l’anno precedente e passato quasi inosservato.
Album che, pur con qualche discontinuità ed episodio secondario rivela da subito il talento poliedrico e multiforme della cantautrice in una giostra di soluzioni brillanti che spaziano da un cantautorato epico-rapsodico di ascendenza mitchelliana a un folk-rock intimo e calibrato, fino a un pop ora graffiante e nervoso ora easy-oriented, ma fresco e scoppiettante.
Il sottoscritto non nasconde di nutrire un debole per questa cantautrice che – prerogativa dei grandi della musica rock e non – scavalca le classiche barriere definitorie volte a limitarne il contributo o l’identità di volta in volta al ruolo di compositrice, esecutrice e interprete. Tanto da essere per me una risposta obbligata a chi mi chiede suggerimenti in merito ad artisti/artiste di questi anni che valga davvero la pena seguire.
All’album menzionato seguono due dischi tra i quali è difficile stabilire quale sia il più bello. “The graduate” (2009) e “Year of the wolf” (2011) – già recensiti su queste pagine – scorrono straordinari, variegati e puri nella loro combinazione ispirata e inquieta di elementi che vanno a plasmare una personalità musicale e umana grande e originale come poche.
“Idaho” (dall’album “Fires”) rappresenta il brano-musa del repertorio della nostra. Nerina non fa altro che agire d’urto sul lascito di quella particolarissima tradizione sinfonica che va da Kate Bush (sua prima passione musicale) a Tori Amos e alza di non poco l’asticella del rischio e dell’immedesimazione sciorinando larghi musicali e repentine virate piano/voce. Ne risulta un capolavoro creato nel puro solco di un patrimonio esistente e consolidato.
Una trama musicale serrata con archi appoggiati da una scansione funzionale di batteria, incornicia liriche che rifuggono l’autoreferenzialità di un mondo interiore da scoprire (cosa che la distingue dalle grandi due colleghe citate) per cercare piuttosto di capire il mondo come scoperta di un tesoro che si pensava inesistente.
L’Idaho è in questo senso un espediente alla stregua dell’Argentina di un Guccini o dell’isola nelle tenebre di Tony Banks. Luce e bellezza intraviste e sorprese in mezzo ad una spessa cornice di buio, forse come chimera, forse più semplicemente come possibilità, spessore di un desiderio autentico. (“Un poema sulla partenza, una ragione per andare, e così eccomi alla guida verso l’Idaho… sono stanca di tutti voi, stanca delle opinioni, stanca di questa guerra che dichiaro a me stessa. Non so perché io sia così afferrata dal desiderio di andarci, forse un enigma sull’universo che solo io conosco?… Non riesco a smettere di sognare che sarò libera, non voglio addormentarmi e restare a guardare la mia vita da distanza impossibile…”).
Eccone una memorabile versione registrata dal vivo per solo piano e voce agli Abbey Road Studios nel marzo 2007, preceduta da una brevissima presentazione. Qui, signori, il cuore grida all’unisono con l’artista che fa il cosiddetto passo oltre sé stessa. Quattro minuti e mezzo da gustarsi senza distrazioni.
L’obiettivo puntato a ingaggiare una battaglia di vita tra il senso e la sua assenza rifuggendo etichette e trucchi, la cruda e pura opzione tra la conquista faticosa e quotidiana di un accento di verità o di un nulla pronto all’uso. Questo e altro emerge ancora in una preziosa b-side come “God of small things” (tratta dall’EP “Junebug” del 2005) e soprattutto in uno dei brani conclusivi dell’ultimo album “Year of the wolf”. “Grace” è una lenta, splendida e dolente riverside song con un soffio corale di gospel nel finale, un’esemplare appropriazione del cantato di certe folk-rock singers americane e un testo preciso nello smascherare l’insufficienza della risposta proveniente dalle parole di un grande e bel libro (e persino da quelle del Libro) che rimangono dato vuoto e statico se non supportate da un avvenimento di pura e invincibile grazia (“c’è un grande precipizio sotto, non guardare giù e anche se è faticoso tener duro, la grazia verrà, e allora figlio mio tieni duro”).