Per la terza volta i Lynyrd Skynyrd, quelli di Sweet Home Alabama, arrivano in Italia. La prima volta è stato nel 1997, la seconda nel recente 2009. Lo fanno anche in questa instabile estate del 2012 con il prevedibile tutto esaurito di bikers e bandiere sudiste, di giovani hardrocker e di attempati amanti del sound degli anni Settanta. Questa band della Florida, dal nome impossibile (che altro non è che la storpiatura goliardica del nome di un giovane professore di ginnastica alla scuola secondaria, tal Leonard Skinner) è per qualcuno legata all’iconografia sudista delle dixie flags, per qualcun altro la band che ha scritto Freebird, celeberrima e torrenziale rock-ballad sulla necessità di libertà (“ma io sono libero come un uccello ed ho bisogno di andarmene….”), inserita in qualche decina di film più o meno celebri, Forrest Gump su tutti.
Chi ha fatto salti mortali per godersi uno dei concerti di Springsteen l’ha fatto a ragion veduta: il ragazzo del New Jersey porta in scena l’energia del rock. Anche chi andrà ad ascoltare la band di Jacksonville sa già cosa li attende, ma lo fa più per venerazione emotivo-carnale che altro, visto che gli Skynyrds conservano della formazione originale il solo Gary Rossington, chitarrista ed autore di molti successi, quasi relegato in disparte sia dalle sue precarie condizioni fisiche che dalla nuova “leadership”, formata da Johnny Van Zant e Ricky Medlocke, il primo fratello dello scomparso band leader Ronnie, il secondo chitarrista poderoso che aveva già frequentato la band agli inizi prima di mettersi in proprio con i Blackfoot.
La realtà è che i Lynyrd Skynyrd di oggi sono quasi totalmente diversi da quelli di 30 e anche solo di 5 anni fa, ma è già un miracolo che esistano. Negli anni questi musicisti di Jacksonville sono passati attraverso mille tragedie, come fossero stati colpiti da una maledizione omerica: prima un assurdo incidente d’aereo ha visto il decesso di mezza band (era il ’77 e il volo privato su cui erano imbarcati riuscì a terminare il carburante, con conseguente sfracellamento al suolo con la korte di Ronnie VanZandt, Steve Gaines e Carrie Gaines), poi incidenti di automobile, droghe e overdose, vita on-the road, reclusioni in prigione e mali incurabili hanno sterminato due chitarristi (Allen Collins e Hughie Thomasson), due bassisti (Leon Wilkeson ed Ean Evans ), un pianista (Billy Powell) e un paio di coriste.
Una serie infinita di lutti, in effetti. Credo che nessun genere musicale abbia lasciato sulla strada una tal infinita serie di lapidi come il southern rock, genere capace di mettere insieme country e soul, blues e jazz, orgoglio del proprio territorio e romanticismo ostinato. Lutti che hanno falcidiato tutti i migliori gruppi dell’area: Allman Brothers, Marshall Tucker, Grinderswitch, Blackfoot, Pointblack, Little Feat, Outlaws, Molly Hatchet. Nove band: in tutto 24 morti. Un ecatombe.
E non si tratta quasi mai di gente da bassifondo metropolitano, di ragazzi “sbandati”, ma di band nate quasi sempre tra giovani di buona famiglia, in gran parte studenti di college cattolici della Georgia e della Florida, marines del North Carolina, figli di insegnanti e di piccoli uomini politici, gente che s’è spenta prima dei trentanni o che che è stramazzata d’infarto a meno di cinquanta dopo aver fatto una vita di oltre trecento concerti all’anno per quattro lustri. Musicisti che hanno finito per trovarsi in case di ricovero per degenerazioni cerebrali o che hanno scelto di suicidarsi, ben prima di Kurt Cobain, perché incapaci di resistere alla pressione o di dedicarsi tranquillamente alla famiglia.
Una storia, quella del southern rock, maledetta e senza fine, con giovani che hanno scritto e cantato “cerca di essere un uomo semplice, così tutti potranno capirti” (Simple Man) e non hanno capito in tempo dove stavano spingendo l’acceleratore della loro fame di musica e di protagonismo. Erano belli e pieni d’energia, divertenti e ricchi di entusiasmo, avevano il valore della propria terra e delle amicizie autentiche. Ripeto: nessuno ha lasciato così tanto sul campo di battaglia. Il punk, il rock’n’roll, l’acid rock, la west coast, il metal: nessuno ha pagato così tanto.
Negli stati del Sud si dice: è il prezzo di chi ha provato a rimanere fedele al mito dei South-Rebel senza inquadrarsi nello yankee-way of life. Può darsi. Chi è sopravvissuto bene – come la Allman Brothers Band degli ultimi anni – lo ha fatto tirando il freno, cercando un equilibrio rilassato tra i propri demoni e le proprie speranze, anche se nessuna canzone recente identifica questo mondo come Old Before My Time (“cercando di trovare una ragione per far suonare bene tutta la vita, ti fa invecchiare prima del tempo”), constatazione di una ferita che non smette di sanguinare. Ferita che cerca pace, ferita che cerca un orizzonte e un arcobaleno in mezzo all’ipocrisia di un mondo che cambia e dimentica radici e dignità.
I Lynyrd Skynyrd che arrivano in Italia sono una signora band con un elenco di classici rock da far paura, con alcuni buoni giovani comprimari che servono alla bisogna: portare sul palco un suono unico, lo stesso che negli anni Settanta aveva conquistato Who e Rolling Stones. Rossington, Van Zant e soci sono rimasti fedeli al loro passato continuando anche recentemente a produrre bei dischi (l’ultimo God And Guns è davvero bello) e preparandosi ad un ritorno discografico nel prossimo autunno con Last of a Dying Breed.
Sentirli ancora una volta in Italia sa del miracoloso. Impossibile sapere esattamente quanto potrà durare ancora la loro vita on stage, quindi chi può se li goda. Negli Stati Uniti e in mezza Europa sono una leggenda vivente. In Italia sono roba da rockettari incalliti e tremendamente datati.
Il mondo dei giovani e degli ascoltatori “colti” non li conosce o al massimo li considera – come a New York – dei “burini del sud”. Chi sarà a Vigevano ad ascoltarli si godrà il puro divertimento ad alta gradazione della bandiera sudista che sventola su Call me the Breeze, Simple Man e T For Texas. Sempre meglio che sbracciarsi per Madonna, i Modà o i Kasabian.