Nel novembre 2010, commentando la messa in scena a Venezia de“L’Elisir d’amore”, tenni a sottolineare che si tratta di un “melodramma giocoso” (tale la dizione ufficiale) di Felice Romani messo in musica da Gaetano Donizetti. Come tutti i capolavori è irto di trappole che, nelle esecuzioni più sempliciotte, si cerca di celare accentuando frizzi e lazzi resi possibili dal libretto. E’ un lavoro della piena maturità di un Donizetti trentacinquenne e sulla cresta dell’onda in quanto richiesto dai maggiori teatri. Si colloca, inoltre, come unica opera apparentemente leggera tra tanti drammi cupi (“Anna Bolena”, “Fausta”, “Ugo Conte di Parigi”, “Torquato Tasso”, “Lucrezia Borgia”) che caratterizzano un periodo creativo del compositore bergamasco travagliato da drammi personali e dai primissimi accenni del male che, dieci anni dopo, lo avrebbe portato alla pazzia e alla morte.



Non è un lavoro “buffo” di per se, ma un perfetto meccanismo in cui si combinano vari generi, alcuni dei quali comprensibili solo al pubblico del 1832, anno della prima (o giù di lì). Dei quattro protagonisti, unicamente il basso Dulcamara appartiene alla categoria dei “buffi”. Belcore è una satira raffinatissima, invece, delle convenzioni dell’“opera seria” in via di estinzione (si pensi al “Come Paride vezzoso”); Nemorino e Adina sono personaggi, anche vocalmente, da “comédie larmoyante” (quale, nel teatro italiano, “La Gazza Ladra” rossiniana): non per nulla sono stati tra i cavalli di battaglia di Giuseppe Di Stefano, Nicolai Gedda, Carlo Bergonzi, Afredo Kraus il primo e Bidù Sayao, Renata Scotto, Mirella Freni, Joan Sutherland, la seconda.



Non dimentichiamo che le interpretazioni più complete di Luciano Pavarotti, quando era nel fulgore della sua carriera, sono state proprio quelle in cui vestiva (con la sua mole) i panni del giovane e tenero contadinello in mal d’amore. Alle trappole vocali, si aggiungono quelle orchestrali. Pur nella piena maturità, Donizetti non ebbe nell’“Elisir” la compostezza orchestrale di altri suoi lavori, quali quelli intitolati alle tre regine Tudor o le opere composte in Francia.

L’equilibrio orchestrale è instabile con i fiati (principalmente i tromboni) che tendono a sovrastare gli altri strumenti e in certi momenti a coprire i cantanti attori. “L’Elisir”, infine, è stato pensato per un teatro (quello, milanese, della Cannobbiana) di dimensioni medio-piccole, ove nessuno degli esecutori dove sforzarsi.



Poco più di un anno fa, una nuova produzione de “L’Elisir” è arrivata a Roma. A differenza dell’edizione veneziana (regia di Bepi Morassi e le scene i costumi di Gianmaurio Fercioni) che puntava su uno spettacolo tradizionale e a costi contenuti, quella romana è una nuova produzione , a mezzadria, con la San Francisco Opera, guardando, quindi, al budget, ma anche al pubblico internazionale. C’è una scena unica che con pochi elementi si trasforma nei vari luoghi dove si svolge l’azione. 

Tuttavia, non è chiaro se siamo nei Paesi Baschi o piuttosto in un paesetto del Mediterraneo. L’équipe che curava l’azione scenica (Ruggero Cappuccio per la regia, Nicola Rubertelli per le scene e Carlo Poggolio per i costumi) veniva dal teatro sperimentale campano e, di conseguenza, ci si sentiva sotto il sole che riscalda i comuni vesuviani. Anche gli acrobati e i giocolieri sono più nostrani che baschi. Tuttavia, non si è caduti in lazzi e frizzi come si sarebbe potuto temere. Al contrario, si è ben tenuto l’equilibrio tra il sentimentale “larmoyant” e l’ironico più che il buffo.

Il 12 giugno è arrivata a Palermo la messa in scena curata da Damiano Michieletto (scene di Paolo Fantin, costumi di Silvia Aymonino), giovane stella veneziana del firmamento registico internazionale: attesissima la sua “Bohème” che, ambientata in un centro commerciale nel 2012, sarà in scena in agosto a Salisburgo e già adesso sfoggia il “tutto esaurito”. Giunge da Valencia, dove il pubblico è rimasto entusiasta. I due protagonisti (Desirée Rancatore e Celso Albelo) sono gli stessi dello spettacolo veneziano. La piccolo comunità di un villaggio della campagna basca è lontana. Siamo in una spiaggia della Spagna di Almodovar prima della crisi finanziaria: colori sgargianti, scivoli acquatici,  coppie che amoreggiano e, soprattutto, tanta , tanta gente in palcoscenico. Nemorino è un bagnino sfigato, Adina gestisce con alterigia stabilimento balneare e ristorante, Belcore un marinaio in licenza alla ricerca di donne con cui finire rapidamente sotto le lenzuola, Dulcamara spiaccia elisir e quant’altro attorniano da “veline” e pubblicità fallica dei suoi rimedi. Il “melodramma giocoso” diventa una commedia comica – di un mondo, però, già spiazzato dalla crisi finanziaria ed economica.

All’inizio dello spettacolo, i miei vicini di fila nel bel Teatro Massimo di Palermo erano perplessi. Si sono riscaldati via via ed hanno salutato regia, cantanti, orchestra con applausi e anche ovazioni. Ma quello che applaudivano non era “L’Elisir” di Felice Romani e Gaetano Donizetti –mirabile gioiello da toccare con delicatezza e senza mischiarlo con monili (né di plastica né di Swarowki).

Sotto il profilo musicale, Paolo Arrivabeni è un concertatore maturo che ha posto l’orchestra al servizio delle voci e poco si è curato del gran via via nell’affollato palcoscenico. Tutto sommato, meglio così.

Mario Cassi (Belcore) e Paolo Bordogna (Dulcamara) sono giovani e bravi attori oltre che abili cantanti. Affrontano i personaggi loro affidati con grande disinvoltura e con auto-ironia. L’applausometro, però, è andato velocissimo alle stelle per Celso Albelo, specialmente quando ha affrontato la temibile “Una furtiva lacrima”, in cui ha dato prova di grande maestria, sfidando il Si bemolle della prima strofa e andando dolcemente al Re bemolle della seconda al Do di petto e al Sì naturale finale. Un’interpretazione memorabile anche in quanto timbro chiarissimo che riesce a esprime tutte le sfumature (anche il “Sì naturale”) di un “larmoyant” tenerissimo e dolcissimo tra cui “Cielo, si può morir” tinto da pulsioni erotiche che esplodono all’entrata in scena di Adina. Desirée Rancatore, palermitana e figlia di un professore del Massimo, giocava ‘in casa’: pieno d’effetti, l’applauditissimo rondò “Il mio rigor dimentica”.