Si è detto e scritto tanto su di essa. Ed è chiaro perché. Non esiste sintesi della cultura europea più completa della Nona sinfonia di Ludwing van Beethoven. Non solo per via del fatto che sia l’Inno ufficiale dell’Unione Europea. Non solo perché i tecnici della Sony, inventando il Compact Disc, presero dai minuti della durata di questa Sinfonia lo standard universale della lunghezza del nuovo disco. La Nona è una specie di vertice della bellezza, punta di eccellenza di un intero genere, un Totem della cultura. Al pari del David di Michelangelo, della Divina Commedia, della Gioconda. E di pochi altri oggetti scaturiti dal genio dell’umanità. E tuttavia il discorso di ieri sera di Papa Benedetto XVI alla Scala di Milano resterà nella storia dell’umanità (e della musica) come uno dei commenti più semplici e profondi su questa opera d’arte intramontabile.



La prima idea del Papa è che la Nona è un inizio. Una partenza, l’alba di un nuovo giorno. Ecco il ricordo storico del “concerto memorabile” di Toscanini del 1946. Oggi come allora, l’Europa è in guerra, macerie e bombardamenti hanno quasi distrutto la nostra civiltà. E’ vero, è una guerra virtuale, fatta con lo spread e coi mass media. Ma non per questo meno dolorosa. La Nona è l’umanità che nel fondo della disperazione, di fronte alla distruzione, riparte. Come Primo Levi che recita Dante al ragazzino di Auschwitz: “Fatti non foste/a viver come bruti…”.



La seconda idea è che la gioia cantata da Beethoven è un ideale di fratellanza universale non propriamente cristiano. Potente, affascinante, ma a rischio di deludere l’uomo. E’ la gioia vitale e universale dell’ideale romantico. Qualcosa che tutti ci accomuna nella domanda che rivela, nel desiderio che sottolinea, questo sì davvero universale. Perché tipico del cuore umano. Epperò allo stesso tempo fragile.

Come spiegare questo? La realtà della vita lo aiuta. Il Papa ricorda il terribile terremoto che ha colpito l’Emilia in questi giorni. Le note che celebrano “la gioia attiva” sembrano “non vere”, su di esse grava la grande sofferenza di questi giorni. La grande “gioia” di Schiller deve dimenticare la contraddizione principale della vita. La stessa idea che c’è un Dio lassù “sopra il cielo stellato” non soddisfa la nostra umanità. (A leggere queste parole precise viene in mente la fulminante definizione di Augusto Del Noce  su Immanuel Kant: “Il suo è un ateismo postulatorio”).



Terza idea. Noi uomini abbiamo bisogno di un Dio vicino. Non di un Dio lontano, nel cielo stellato, un Dio “postulato” che ignora la nostra terra, la nostra sofferenza, il nostro dolore. “Cerchiamo”, ha detto il Papa, “un Dio che non troneggia a distanza”. In una delle poche interviste televisive di Don Luigi Giussani che è negli archivi di Mediaset, il Gius dice: “Noi non proponiamo la tensione verso un cielo lontano, un iperuranio irraggiungibile, per noi il Cristianesimo è una vibrazione della terra”. “Siamo in cerca del Dio vicino”, ha concluso il Papa. Del Dio “che soffre con noi”. 

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