Un silenzio assordante avvolge la musica classica. C’è molto più trambusto a Messa. Ai concerti capita sempre più raramente di incontrare entusiasmo, fastidio, perplessità, dispetto, espressi dagli ascoltatori in maniera chiara, a caldo, sul posto. Tranne che all’opera, i fischi sono spariti, i “buuu” severamente vietati, chi tossisce rischia la soffocazione, in Olanda e Germania le caramelle te le offrono già scartate all’ingresso, ogni commento è redarguito con sguardi inceneritori, i ritardatari restano fuori. Sono negate grattatine, rumorosi sonnecchiamenti, bisbigli, movimenti in genere, manifestazioni palesi di lode o di noia.
Un sospiro eccessivo, un accento battuto col mocassino, un ritmo tamburellato con le dita meritano il cartellino giallo. Tutto è disturbo, perfino gli applausi. Provate a battere le mani al termine di un movimento che non sia l’ultimo. Vi guarderanno come un mentecatto. Mica si sta registrando un cd.
Non è sempre stato così, anzi. Le esibizioni di Mozart erano costellate da «bravo», commenti, chiassosi segni di approvazione. La prima esecuzione della «Terza» di Beethoven fu ripetuta per tre volte: tre Eroiche di fila; quasi una regola anche il bis immediato dell’Allegretto della «Settima».
All’assolo di timpani dello Scherzo della «Nona» la gente scattò in piedi con un boato liberatorio, un misto di gioia e stupore, e si dovette ricominciare da capo. Spesso Liszt era costretto a suonare fortissimo per placare le ovazioni spontanee. Fino a qualche decennio fa gli spettatori reclamavano a gran voce gli autori e i bis che volevano sentire. Oggi la quiete è cosmica, altro che «4’33’’» di John Cage. All’uscita delle nostre sale concertistiche gli spettatori sfollano come dopo un rito funebre, incapaci di scrollarsi di dosso tutte quelle note.
C’è qualcuno? Sembrano chiedersi dal palco i musicisti, un po’ perplessi e imbarazzati da tanta tranquillità. Cos’è successo? Lo chiediamo a Piero Rattalino, musicologo di lungo corso.
«Nella musica e nella psiche umana coesistono tre aspetti: pensiero, emotività e gioco. Nella storia del concertismo abbiamo attraversato queste tre fasi, ma in ordine inverso. Paganini, Liszt, Thalberg e tanti altri si basavano sul virtuosismo, cioè sul gioco (pur non ignorando affatto il pensiero, tanto che Liszt eseguì e fece apprezzare anche la Hammerklavier di Beethoven). L’applauso rappresentava allora sia lo scarico di tensione dopo un’esecuzione virtuosistica nella quale si restava con il fiato sospeso, sia un segnale mandato all’artista, al quale non era garantito un cachet, ma una percentuale sull’incasso.
La generazione successiva cominciò a spostare l’interesse sull’emotività: Paderewski, Rachmaninov, Ysaye e tanti altri erano eminentemente emotivi, e anche qui l’applauso aveva le stesse finalità. Il Novecento, dopo la Prima Guerra, ha focalizzato la sua attenzione sul pensiero, e poiché non si acclama un filosofo quanto un giocoliere, gli applausi sono diminuiti. Oggi, però, i tempi sono cambiati e il pubblico, salvo quello tradizionale che va scomparendo, desidera essere coinvolto, emotivamente e ludicamente. In pratica, abbiamo camminato molto, ma siamo ritornati al punto di partenza. Perché cresca la capacità di autofinanziamento della musica classica dal vivo, occorre che il pubblico aumenti.
L’applauso riprenderà la sua funzione non appenai musicisti classici si accorgeranno di essere diventati una specie protetta a rischio di estinzione. Tutto quello che è stato detto sul pensiero è conservato nei dischi e nei Dvd. Il testo, se la musica dal vivo sopravviverà, non sarà più una bibbia di cui non si trascura una virgola, ma un materiale per spettacolo. Almeno, me lo auguro».
(Enrico Raggi)