Il lavoro dell’artista in fondo è simile al puro e umile gesto del lanciare un sasso – anche piccolo e fragile – in un grande lago, creando cerchi d’acqua la cui forma è definita da quello che è il proprio personalissimo itinerario. Certo c’è il “prima” fondamentale dei grandi maestri, c’è la formazione e il talento musicale, tutto questo non può mancare, ma quello che per l’artista offre le ragioni dello spendersi di un rischio sta proprio lì. Un ciottolo scagliato da un movimento unico e irripetibile di mano e braccio, il formarsi di traiettorie insolite e strane che, pur rimandando ad altre, con quelle non possono mai confondersi.
Questo e altro per parlare di Esperanza Spalding, compositrice, bassista/contrabbassista nonché pregevole e suadente voce di schietta area jazz. La sua stessa origine sembra testimoniarne sin dal principio l’intima e sfavillante varietà di espressione.
Classe 1984, nata e cresciuta a Portland da padre afroamericano e madre gallese misto ispanica. Affidata quasi da subito alle cure di una balia di madrelingua iberica, manifesta sin dalla più tenera età un talento spiccato per la musica e per il canto che la porteranno intorno ai 15 anni a tentare l’avventura alla celeberrima Berklee College of Music, abbandonata in seguito, causa ristrettezze economiche, poi ripresa con l’aiuto di nomi di grande fama della scena americana.
Dal ruolo di docente presso la stessa scuola con il compimento del ventesimo anno all’esordio discografico il passo è breve e così nel 2006 viene dato alle stampe “Junjo”, parto che lascia impressa una limpida e sorgiva epifania d’artista pur nell’indole ancora acerba di una scrittura confinata nell’ambito di studi e esercitazioni sullo stile dei grandi del genere di riferimento.
Il primo lampo è del 2008 con l’eponimo “Esperanza”, disco che esibisce un agile e fresco melange di musiche, suggestioni e scritture giocate sul filo della tradizione con virate nel sudamericano che dai rapidi cenni dell’esordio si espandono fino ad abbracciare l’imponenza dolce e calorosa di samba e bossanova (spesso e volentieri in lingua originale).
Reinterpretazioni vivaci e brulicanti che spaziano da Milton Nascimento a Powell-De Moraes fino a una rilettura tosta e nervosa di Body and soul” si saldano a composizioni di propria mano come l’irresistibile capriccio carioca di “I adore you”. Per molti questo è ad oggi il miglior disco della nostra, ma a torto perché ancora tanto di quello che la Spalding ha da offrire è tuttora in via di rivelazione.
La chiave del giardino segreto di quest’anima geniale e indomabile è custodita da un gioco di rimandi che risalta sin dai titoli prescelti per le due magnifiche opere che seguono. In “Chamber Music Society” (2010) – opera integralmente acustica – l’effetto cerchio d’acqua si espande sino a creare una sovrapposizione fuori dell’ordinario all’insegna di sorprendenti e febbrili transizioni tra jazz e sinfonico (le dilaganti “Knowledge of good and evil”, “Chacarera” e “Wild is the wind”) ed emissioni latinoamericane sempre più cariche e drammatiche (le armonie a incastro della conclusiva “Short and sweet”).
L’impeto incontenibile e stravagante della nostra si spinge fino alla appropriazione di canoni e visioni dello slow mood d’annata con una “Apple blossom” dove la nostra dirotta l’ospite Nascimento su coordinate giocate in sospensione tra Gershwin e Bacharach.
“Radio Music Society”, pubblicato alla fine dello scorso mese di marzo, ripropone il motivo dell’eterno ritorno di un possibile rinascimento musicale.
Al ritornello buono per tutte le stagioni del disfattismo di settore, la Spalding risponde con un caleidoscopio di sonorità ribollenti e gravide a testimoniare una nuova venuta (l’ennesima) della grande black music in una perfetta sintesi delle spinte e controspinte che ne hanno caratterizzato l’epoca gloriosa e segnato il passo incerto delle ultime due decadi.
Sagacia e intuito si mescolano con quel grande lascito raccolto dalle più recenti incarnazioni (Keys) del furore creativo di grandi padri (Wonder, Steely Dan, EWF). Esperanza è la figlia minore, l’ultima nata di quella grande genealogia e ne prosegue i tratti salienti sbocciando come singolarità inquieta e tormentata, sempre in bilico tra amore e irriverenza verso quei grandi padri, sempre alla ricerca di una propria vita e di un’espressione definita.
Lavoro prevalentemente elettrico che si avvale dell’immancabile ausilio del pianista alter ergo Leo Genovese e di ospiti di lusso di area squisitamente jazz proiettati in dimensione soul (fra gli altri Joe Lovano e Jack DeJohnette), si apre con lo straripante arcipelago sonoro di “Radio song” dove suoni, colori, armonie, ritmi sanguigni e sincopati, giocosi saliscendi vocali si succedono come in una nuova grande rivelazione di un tesoro scoperto e prontamente dissotterrato, prosegue con l’intensa ballad “Cinnamon tree” suadente e perfetta istantanea aggiornata del New York sound dall’imprinting cinematografico, per poi calarsi nelle sublimazioni corali del pop-soul variegato di “Crowned & kissed”.
Dal gospel a bruciapelo di Land of the free”, all’avvolgente singolo “Black gold” (in tandem con la soul singer Algebra Blessett), fino alla cover di “I can’t help it” (perla di Wonder scritta per l’”Off the wall” di jacksoniana memoria), l’album sembra stabilire un continnum all’insegna di un’inesauribile estro soul-funk che viene spezzato solo a mezza via da nuove e inaspettate intersezioni proposte dalla poliedrica musicista.
La big band-musical flavoured “Hold on me”, la sortita slow di “Vague suspicions” e I trilli vocali radiosi della “Endangered species” di Shorter (qui fornita di testo e melodia vocale), ricatapultano la nostra in area jazz per poi approdare a soluzioni inedite e miste dove il soul viene ammorbato di semitoni vocali (“Let her”) o di scrittura di taglio più tradizionale (“Smile like that”).
In questa successione concitata l’ennesima delizia sonora è una “City of roses”, omaggio alla sua città nativa, dove un big-band sound più pacato prepara il terreno a un’aria vocale giocata tra sinuose fioriture vocali e liquide armonie corali di raccordo.
Un lavoro che esibisce quello che è il segno privilegiato di riconoscimento della grande arte, nella musica come nelle più varie espressioni della creatività umana, quel marchio che inconfondibilmente si scorge sin dal primo impatto con quest’artista unica che risponde al nome di Esperanza Spalding. Delicata e tenace, elegante e determinata, fascinosa e incantatrice.