Se ieri qualcosa ancora poteva avvicinare gli Smashing Pumpikins a una band, oggi nulla più può mentire: le “zucche” sono Billy Corgan con tre musicisti intorno. Prima c’erano Iha, Chamberlin e D’Arby, oggi invece i comprimari si chiamano Jeff Schroeder, Nicole Fiorentino (ex bassista delle Veruca Salt) e Mike Byrne (giovanissimo, classe ’92). Sono loro i comprimari di “Oceania”, nono album accreditato alla band di Chicago, un disco dove il band leader pare aver ritrovato il bandolo della sua matassa, così aggrovigliata e quasi inconcludente nell’ultimo “Zeitgeist” (l’on going project di Teargarden contiene cose interessanti, ma discontinue).



Tutto cambia affinché ogni cosa rimanga al suo posto nell’avventura degli Smashing: musicisti intercambiabili, tono tendente sempre al nero, suoni duri sconfinanti con la psichedelia e con il punk. Ma in questo nuovo album Corgan ritorna alla qualità della scrittura. Lo si sente subito dalla intensa e potente Quasar, dai suoni durissimi, ma capaci di trasfigurarsi con tentazioni sinfoniche e progressive. The celestials, Palehorse, Oceania: i pezzi più intensi del nuovo lavoro chiariscono che il 44enne Corgan ha superato la crisi creativa e umana degli ultimi anni e si è rimesso a scrivere pagine rock di personalità non indifferente.



Per chi ne avesse perso la memoria val la pena ricordare che tre dischi di questa band – “Siamese Dreams”, “Mellon Collie” e “Adore” – sono pietre miliari dello smarrimento esistenziale degli anni Novanta. I am One, Soma e soprattutto Zero (una delle più devastanti canzoni del rock: “il vuoto è solitudine, la solitudine è pulizia, la pulizia è divinità; e dio è vuoto esattamente come me”) sono le disperanti confessioni di una generazione molto più annichilita della quasi coetanea popolazione grunge, tossica e disperata, ma ancora capace di rabbia congenita. Depresso e sconsolato, molto piu violentemente dark di Robert Smith, Corgan ha distillato per il pubblico di mezzo mondo un enciclopedia di disarmante autodistruzione, vestendola con un suono hard spesso davvero originale, cantandoci sopra versi resi lancinanti dalla sua voce particolarmente straniata. Senza di lui forse non ci sarebbe lo spleen sinfonico dei Muse. Con lui le confessioni di desideri di suicidio (si ascolti Today da Siamese Dream) hanno raggiunto il livello massimo di tensione nel rock, anche maggiori di quelli di Ian Curtis e di Alan Vega.



Tutto questo bagaglio di spasmodica negatività esiste ancora in “Oceania”? In parte sì. Infatti, qua e là, pare che qualcosa si muova e si smuova. Si lascia andare a sprazzi di speranza, il Billy di One diamond, One light, a luci di dignità, come in Celestial, dove scolpisce una frase eterna: “l’unica cosa che desidero è la libertà”, mentre l’amore di Wildflower è una fatica che spezza le reni, ma lascia lacrime di speranza. 

Che succede all’immensità cruda e nichilista della disperazione di Corgan? Qualcosa si è inserito nel suo asettico vuoto monocorde? Di lui, della sua vita privata, sappiamo dei passati legami amorosi con Courtney Love (vedova di Cobain), della religiosità onnivora e sincretica che mescola cristianesimo (Corgan ha dichiararo: “ogni mattina mi sveglio e prego di poter vedere con gli occhi di Cristo, di poter ascoltare attraverso le orecchie di Cristo, di poter sentire attraverso il cuore di Cristo”) e buddismo. Cresciuto poi anche dal punto di vista squisitamente musicale, Billy Corgan si è visto coinvolgere da personaggi diversissimi (notevole la sua partecipazioni ad alcuni show di David Bowie: chi lo vede in All the Young Dude potrebbe scoprire in lui una vena insospettabile). Poco altro.

Insomma: Corgan è cambiato e migliorato nell’umore? Potrebbe essere che l’uomo dello “zero” abbia compreso di poter essere un “uno”? Troppo presto per dirlo. E magari gli amanti del rock depressivo potrebbero inorridire. Sicuramente “Oceania” è un disco potente e convincente, solo un gradino sotto la triade dei migliori degli Smashing Pumpkins. Non si può di certo ascoltare come fosse musica estiva, ma il tempo potrebbe trasformarlo in uno dei migliori dischi rock dell’anno. Magari da prendere a piccole dosi.