Si svolge dal 29 giugno al 15 luglio 2012 la 55esima edizione del Festival dei Due Mondi di Spoleto, storica manifestazione culturale che negli ultimi anni si è riaffermata quale evento di risonanza mondiale. Terreno d’incontro fra culture diverse e grandi esperienze artistiche provenienti da tutto il mondo, prestigiosa ribalta per artisti di fama, vetrina per quelli emergenti, e di nuovo luogo di produzioni originali, il Festival porta in scena le massime espressioni dell’opera, della musica, della danza, del teatro, con uno sguardo attento anche sul visivo contemporaneo. La 55esima edizione del Festival si presenta con 55 spettacoli e 106 aperture di sipario, 2 rassegne di cinema, 1 laboratorio teatrale, 3 convegni, 2 concorsi, 4 premi, oltre a diversi eventi speciali e mostre.



In occasione del centenario della nascita di Benjamin Britten, che cade nel 2013, il Festival è stato inaugurato con “The Turn of the Screw” (“Il Giro di Vite), l’opera più rappresentata del compositore britannico  A proposito del racconto di Henry James da cui è tratto il lavoro, Britten utilizzò tre aggettivi “meraviglioso, sinistro e terrificante”. Dalla novella, Britten fece trarre un libretto affascinante da Myfanwy Piper: due atti (di otto scene e 50 minuti esatti ciascuno) pensati come uno specchio: a ciascuna breve e rapida scena del primo atto se ne riscontra una analoga nel secondo in cui però la tonalità di musicale è rovesciata o più semplicemente duplicata con un leggero mutamento. L’organico è all’osso: tredici orchestrali e sei voci (che possono essere ridotte a cinque) di cui due “bianche”, due  soprani e un tenore. La struttura a specchio e la prevalenza di voci “alte” fa sì che le singole rapide scene diano il senso dell’avvitarsi della vicenda sino alla tragica “giaccona” finale.



La novella di James e il dramma in musica di Britten sono imperniati sulla perdita dell’innocenza – una perdita “ambigua” in quanto non è mai palese se siano stati i bambini Flora e Miles ad essere  corrotti oppure anche complici dei loro corruttori (ormai morti e divenuti fantasmi) o se il desiderio della loro nuova Governante di riscattarli celi un più sottile tentativo di conquista. Non è neanche chiaro se la perdita dell’innocenza sia connessa a possesso intellettuale, psicologico o sessuale. Britten pensò “The Turn” come opera “portatile” da trasferta da un teatro all’altro.



Per diversi anni si è visto in vari teatri italiani un allestimento di Luca Ronconi, presentato a Torino, Roma, Cagliari, Parma ed altre città. Le scene di Margherita Palli, i costumi di Vera Marzot e la regia di Luca Ronconi ci portavano in una Gran Bretagna vittoriana ossessiva. Pochi anni dopo, un’edizione firmata da  Luc Bondy dava ai due tempi una regia incalzante, alla Hitchcock, anche in quanto  aiutata dalle belle scene (studiate per rapidi cambiamenti) di Richard Peduzzi e dai costumi di Moidele Bickel: eliminati tutti i ciarpami vittoriani, il “Turn” diventa un nostro contemporaneo che ci prende ancora di più. L’edizione partì da Aix en Provence e girò per vari teatri europei. Ad Aix il vero capolavoro è stata la direzione intensa e travolgente del piccolo organico orchestrale da parte di Daniel Harding.

L’allestimento di Spoleto si deve confrontare con queste due pietre miliari della realizzazione di “The Turn” negli ultimi quindici anni. Perfetta la resa musicale da parte dei sette interpreti e del complesso della Verdi di Milano guidato da Johannes Debus. È lavoro molto difficile sotto il profilo sia orchestrale sia vocale. Ciascun atto, come si è detto, si basa su tema e una serie di variazioni (una per scena), Johannes Debus ed il piccolo ensemble (meravigliosa la celesta) hanno fanno sì che idee musicali così complesse venissero espresse con grande naturalezza e spontaneità e che l’organico cameristico fosse in grande di esprimere negli intermezzi sonorità sinfoniche.

Dal punto di vista vocale, “The Turn” ha due trappole: l’ascoltatore deve essere in grado di comprendere ogni parola (e ogni parola è legata a tonalità specifiche) poiché si è alle prese con un “giallo”; inoltre, la vocalità della protagonista è impervia in quanto spesso imperniata sull’acuto. Il cast è in gran misura anglosassone: eccelle il giovane Thomas Copeland nel ruolo di Miles e molto buoni anche Martin Miller (il Prologo) e Leonardo Capaldo (Quint), ruoli scritti perché venissero cantati da Peter Pears. Nel gruppo femminile, la protagonista, la francese Marie – Adeline Henry ha la vocalità richiesta, ma una dizione spesso di difficile comprensione.

Di livello Hanna Schaer, Emily Righter e Rosies Lomas. Si resta perplessi alla  regia di Giorgio Ferrara e alle scene di Guido Quaranta: si ispirano al quadro del simbolista di tardo ottocento Arnold  Böcklin sull’isola dei morti, idea di recente utilizzata per lavori così differenti come il “Macbeth” di Verdi ed “Arianna a Nasso” di Strauss (deve essere di moda). Manca sia il clima vittoriano dell’edizione di Ronconi che soprattutto il passo incalzante alla Hitchcock di quella di Bondy.