Per quattro ore, nonostante fossimo più di 70mila nel catino rovente di San Siro, è stato come se ci avesse invitato nel salotto di casa sua. Uno Springsteen così sinceramente contento, sereno, affettuoso lo si era visto raramente. Capace di una intimità così sincera da farti appunto sentire come se ti trovassi da solo con lui e la sua famiglia a scambiare canzoni e racconti di vita. Lo si è visto ad esempio quando durante Waitin’ on a Sunny Day invece di tirare sul palco l’usuale bella ragazzotta come si userebbe fare in ogni rock’n’roll show ha preso su una bambina di manco 10 anni e tenendola per mano le ha dato il microfono: lei canticchiava emozionata qualche parola della canzone, lui la stringeva forte e le faceva facce da papà incoraggiante. Non pago, ha tirato su quello che probabilmente era il fratellino e ha fatto cantare anche lui. Piccole cose, ma cose che non si vedono altrove in questo genere di spettacoli. Per Springsteen ieri sera essere a San Siro era evidentemente una gioia troppo grande e del resto lo ha detto anche lui a un certo punto. Milano, San Siro: siete il pubblico numero uno al mondo. Questa è casa mia, ci mancava solo che aggiungesse.
“I wanna know if love is real”, voglio sapere se l’amore è reale, concreto, vero. Quel verso della sua canzone più celebre, Born to Run, scritta quando era un giovane incazzato con la vita e il mondo, è risuonato ieri sera un po’ come il senso stesso della carriera di questo artista, che della sfida a se stesso e alla vita ha fatto la sua missione. Capire cioè se quella che solitamente è una promessa vana e fragile e corruttibile (lo ha detto anche cantando una commovente e rarissima The Promise seduto da solo al pianoforte: “Quando la promessa si è spezzata, ho incassato solo qualcosa dai miei sogni”) come è quella del rock’n’roll invece possa essere qualcosa che dà consistenza e spessore alla vita stessa. Non posso darvi la vita eterna, ma posso darvi la vita, qui e adesso, disse una volta durante uno dei suoi spettacoli.
Quella promessa che per molti di noi che 27 anni fa erano ragazzini che si affacciavano alla vita e lui era solo un po’ più grande, proprio qui a San Siro nel 1985 veniva lanciata, ci ha ritrovati ieri sera ad affermare che sì, in un mondo che stritola ogni giorno sempre di più speranza e amore e ideali, questa musica e certe canzoni possono davvero essere la piattaforma da cui ripartire ogni giorno, sono uno spazio di autentica libertà dove l’uomo può ritrovare se stesso e la consistenza dei suoi desideri. Lo si è capito quando stringeva la manina di quella bambina emozionata davanti a 70mila: altro che sesso e droga. Ieri sera era solo rock’n’roll, e del migliore. E ci ha resi uomini migliori.
Lo si è capito anche in quei 30 minuti furenti, sanguinanti, devastanti che sono stai la sequenza folgorante di brani – uno via l’altro senza interruzione, come se ne andasse della vita stessa – che sono stati Candy’s Room, Darkness on the Edge of Town, Johnny 99 (nella sua irresistibile resa rockabilly, il vertice della serata), Out in the Street e Working on the Highway, altro rockabilly semi acustico da far tirare su dalla tomba Elvis Presley e fargli dire: ehi, ecco qualcuno che può stare quasi al mio livello. Brani scritti in età giovanile, quando sembrava per Springsteen che la promessa fosse stata spazzata via dal cinismo della vita a cui poteva opporre solo la forza e la disperazione della sua musica, ma sempre con un accento di redenzione e di speranza possibile. Per il sottoscritto, ad esempio, Out in the Street è valsa più di ogni altro momento di una serata tutta o quasi a livelli spettacolari: “Lavoro cinque giorni alla settimana, spaccando buche nella strada, prendo i soldi che mi sono guadagnato duramente e lunedì quando il capo chiama il turno, sto già pensando a venerdì sera: sono giù per strada, sono a casa, mi tolgo i vestiti da lavoro, bambina, qua per strada mi sento a casa”. Per tutti coloro per cui la vita è una fatica a volte troppo grande, una canzone come questa spacca realmente l’istante e accende il cuore di desiderio. Offre redenzione, il che di questi tempi non è davvero poco.
Ci sono stati momenti di altissimo livello per tutte le quattro ore, ben coniugati da una band pregevole arricchita da una sezione fiati straordinaria e da un gruppo di coristi black nella razza e nel sentimento, capace di coniugare il sentimento soul e gospel alle vibrazioni delle straordinarie Seeger Sessions: musica popolare, musica delle radici, musica del popolo, quelle soul e quella folk irlandese. In questo senso alcuni dei brani dell’ultimo disco “Wrecking Ball” hanno trovato quella via espressiva che su disco non avevano. Shackled and Drawn ha portato tutti i 70mila in una chiesa da qualche parte nel profondo Mississippi, e così la commovente Jack of All Trades o anche la divertente Wrecking Ball, che invece della chiesa ha portato in un pub di Grafton Street a Dublino.
Che ieri sera Bruce Springsteen si sentisse come a casa sua lo ha dimostrato in un finale dei più travolgenti, una serie di bis che sono stati un concerto a se stante, anche per la durata di quasi un’ora. Pensate, è riuscito a infilare in sequenza Born in the Usa, Born to Run, Cadillac Ranch, Hungry Heart, Bobby Jean, Dancing in the Dark, Tenth Avenue Freeze Out, Glory Days e una scoppiettante e devastanteTwist and Shout. Per tutta la durata di questi bis al fulmicotone era di nuovo il 1985, quando venne a istruire l’Italia su cosa fosse un autentico rock’n’roll show.
“I wanna know if love is real”, voglio sapere se l’amore è reale: in definitiva, ce lo ha detto quando ha detto di pregare per i nostri morti (ricordando anche il terremoto in Emilia e la devastazione che la crisi sta facendo pagare a tutto il mondo), ricordando uno e ciascuno dei nostri morti in una intensa We Are Alive, cominciata da solo alla chitarra acustica ed esplosa con tutta la band in una festa irlandese di secoli fa. Lo aveva detto prima, introducendo My City of Ruins ricordando “le cose che ci lasciano e le cose che rimangono”. Lo ha sottolineato ancora durante il minuto di silenzio per il suo carissimo amico Clarence Clemons, il sassofonista della E Street Band che fu con lui sin dai primi giorni dell’avventura di questo uomo, decadi fa, morto di recente. Durante Tenth Avenue Freeze Out, “il” brano di Clarence Clemons (“And the Big Man joined the band”) si è bloccato e con lui tutti i musicisti sul palco. Per un minuto sul grande schermo sono passate immagini di Clemons insieme a Bruce, al suo pubblico, ai suoi compagni di musica, mentre i 70mila lasciavano andare un applauso forte e commosso. Perché quello di Springsteen ci piace tantissimo, ma non è solo rock’n’roll. E’ qualcosa che ci rimanda a un oltre, dove la vita è degna di essere vissuta.