Non andate in Oxford Street a cercarlo: il Marquee, come si chiamava allora, aperto nel 1958 come un club dove si suonava jazz e anche skiffle, la musica pre rock’n’roll che amavano anche i giovanissimi McCartney e Lennon, già nel 1964 aveva cambiato indirizzo, anche se di pochi metri. Si era spostato al 90 di Wardour Street. Ma oggi non dovete cercarlo neanche lì. Anzi potete fare a meno di cercarlo in quanto ha chiuso definitivamente nel 2008 dopo essere stato spostato altre innumerevoli volte, fino all’ultima sede, in Leceister Square. La domanda invece da porsi è: perché, con le migliaia di locali musicali a che ci sono a Londra, dovreste mettervi in cerca proprio del Marquee?
Semplice: nel corso dei decenni è stato il più importante e significativo music club londinese, dove ci hanno suonato tutti, ma proprio tutti dai Led Zeppelin ai Joy Division. Ma soprattutto, il 12 luglio 1962 vi suonò una ancora sconosciuta band di ragazzotti di buona famiglia. Allora si chiamavano The Rollin’ Stones. Sul palco quella sera si presentarono Mick Jagger, Keith Richards, Brian Jones, Ian Stewart, Tony Chapman. Bill Wyman, futuro bassista delle pietre rotolanti fino ai primi anni novanta, si sarebbe aggiunto nel dicembre di quello stesso anno, mentre il batterista tutt’oggi in carica, Charlie Watts, sarebbe arrivato nel gennaio del 1963.
Sono passati cinquant’anni esatti da quell’esordio ai tempi passato praticamente inosservato. Nessuno di loro, cinquant’anni dopo, avrebbe mai pensato di essere ancora parte di quella che sarebbe stata definita “la più grande rock’n’roll band del mondo”. Anzi, nessuno di loro, quel 12 luglio del 1962, avrebbe mai pensato di finire a suonare rock’n’roll. A loro interessavano solo il blues, magari un po di R&B, ma il rock’n’roll era musica per adolescenti brufolosi. Il più deciso in questo senso era quello che quel 12 luglio di fatto era il leader del complesso, Brian Jones: negli anni a seguire, pur godendosi – fin troppo – i frutti del successo avrebbe sempre disprezzato la svolta rock del suo gruppo. Morto lui, nel luglio del ’69, gli Stones avrebbero proseguito senza sosta la loro corsa.
Nel bel film “Almost Famous/Quasi famosi”, c’è un momento in cui un nuovo manager si propone allo scalcinato gruppo protagonista del film. Per convincerli che è ora di pensare a fare soldi, dice loro: “Se pensate che a cinquant’anni Mick Jagger sarà ancora lì a fare la rock star, vi sbagliate di grosso”. Si sbagliava lui, ovviamente, dato che a 70 anni di età Jagger è intenzionato, come sembra, a riportare in giro il suo carrozzone rock per festeggiare appunto i cinquanta anni di carriera. Ma questo Mick lo aveva sempre saputo. In un’intervista dei primi anni Settanta, dunque non ancora trentenne, a Jagger viene chiesto se ci si vede a fare questo mestiere per tutta la vita. “Ovvio che sì”, risponde sorridente il ragazzone. D’altro canto, come cantava nella celeberrima Street Fighting Man, “che altro può fare un ragazzo se non suonare in una rock’n’roll band”? Non sarà più un ragazzo, ma non c’è altro di meglio al mondo, evidentemente.
Per questo cinquantennale si stanno scaldando i motori delle celebrazioni. Se un nuovo tour non è ancora stato annunciato ufficialmente – ma ci sarà sicuramente con la speranza che per una volta gli Stones evitino di esibirsi negli stadi e facciano delle esibizioni più umane, in teatri, palazzetti o magari club (potrebbero riuscire a riaprire appositamente anche il Marquee, se solo lo volessero) – arriva proprio oggi un libro a loro dedicato. Un librone anzi, che contiene fotografie molte delle quali inedite, tratte dagli archivi di riviste storiche inglesi come il Daily Mirror, che raccontano questo folle e appassionante viaggio lungo cinquant’anni. È anche l’autobiografia ufficiale della band, la prima, dopo che quella scritta da Keith Richards aveva fatto arrabbiare e non poco Jagger. E chissà quanto altro ancora arriverà nei prossimi mesi.
A questo punto rimane una domanda da farsi: che senso hanno cinquant’anni dopo i Rolling Stones? Un’industria mastodontica che produce ancora un fatturato di tutto rispetto, il sogno di Peter Pan di rimanere bambini per sempre, come evoca il fisico straordinariamente in forma di Jagger (meno quello di Richards)? Nel cofanetto di dvd “The Biggest Band”, uscito qualche anno fa, si vedeva Dave Matthews commentare la sua partecipazione a un duetto con la band. A proposito di cantare con gli Stones, Matthews diceva: “Wow, cantare con gli Stones… questa deve essere fantasilandia”. Fantasilandia è di fatto un po’ il mondo felice dove vivono loro, un mondo dove il tempo si è fermato per sempre. Ma si farebbe un torto a ridurre gli Stones a intrattenimento puro, a una sorta di Disneyland del rock’n’roll come ci hanno abituato in un certo senso le loro esibizioni degli ultimi vent’anni, su palcoscenici faraonici infarciti di effetti spettacolari. Vale invece la pena soffermarsi su pagine meno conosciute del loro repertorio per scoprire qualcosa di diverso, per capirne la vera essenza. Se è vero che è dal 1978, anno di uscita del bellissimo “Some Girls” che Jagger e soci non fanno più un disco degno del loro nome, è altrettanto ero che non hanno scritto solo Satisfaction, che comunque sarebbe abbastanza.
Per una band costruita essenzialmente sui riff secchi, geometrici, pulsanti della chitarra di Keith – non a caso soprannominato The Riff – Richards e sulla straordinaria vocalità di Jagger, e dunque sulla ripetitività della scala blues, c’è tutto un mondo che gli Stones indagarono a fondo nel loro periodo migliore, e cioè la fine dei Sessanta e i primi Settanta. Grazie all’amicizia con Gram Parsons, musicista americano del profondo Sud degli States, per un breve momento Jagger e soci si abbeverarono all’altra faccia del rock’n’roll: la musica hillbilly, più conosciuta come country music. Di quel periodo rimangono almeno due brani imprenscindibili, ognuno legato a un momento e a una immagine precisa.
La prima immagine è quella che prese piede poche settimane dopo gli attentati alle Torri Gemelle. Gli Stones come molti altri grandi nomi erano stati invitati a un concerto al Madison Square Garden il cui pubblico era composto da parenti e amici dei vigili del fuoco e dei poliziotti morti a centinaia nel crollo delle Torri. In realtà quella sera si presentarono per qualche motivo i soli Richards e Jagger. Scelsero di eseguire un brano oscuro del loro repertorio, eseguito dal vivo in precedenza solo altre cinque volte, inclusa nel loro album del 1968 “Beggars Banquet”. Si intitolava Salt of the Earth, il sale della terra, e per un gruppo indicato come gli amici del diavolo e con una simpatia spiccata per Mister Lucifero (Sympathy for the Devil, che in realtà era ispirata al libro Il maestro e Margherita di Bulgakov), ecco un pezzo che faceva riferimento a quel sale della terra di cui si legge nel Vangelo (“Voi siete il sale della terra… voi siete la luce del mondo” Mt 5,13-14).
Era una canzone scritta per i lavoratori, la gente che tiene in piedi il mondo senza mai venir ricordata: “Lets drink to the hard working peppole, lets drink to the lowly of birth (…) raise your glass to the hard working peppole, lets drink to the uncounted heads, lets think of the wavering millions”. Mai canzone fu più appropriata in una serata dove si piangeva l’umile sacrifico di migliaia di lavoratori che si era consumato poche settimane prima a New York. Con un coro gospel ad accompagnare i due in un esaltante brano che sembrava uscito da una chiesa tra l’Alabama e la Louisiana, Salt of the Earth rimane come una delle più straordinarie, realistiche e commoventi canzoni della storia del rock. Anche di questo sono infatti stati capaci gli Stones, non solo di inni all’eroina o a bambolone bionde e disponibili.
Ma c’è un altro brano, questo molto più conosciuto ed eseguito tutt’oggi a ogni concerto degli Stones, che pesca musicalmente nella forza della miglior gospel music bianca di matrice country. Un brano che è legato indissolubilmente alla scena iniziale del bellissimo film “Il grande freddo”, film che racconta lil difficile raggiungimento della maturità e la fine degli ideali della generazione anni sessanta, quella degli Stones. Era la canzone preferita del protagonista, morto suicida, e perciò viene suonata in chiesa alla fine del funerale. Quando la lunga fila di macchine si avvia verso il cimitero, subentra la canzone originale degli Stones.
E’ You Can’t Always Get What You Want, non puoi sempre ottenere quello che vuoi. Una canzone che si apre su un’aria lenta, piena di malinconia e senso di precarietà per poi esplodere in un finale ad alta velocità, un grido alla vita nonostante tutto: “L’ho vista oggi alla reception, con un bicchiere di vino in mano, stava aspettando il suo contatto (…) Andai alla manifestazione, per ricevere la mia giusta dose di abusi”. C’è un mondo che svanisce in questi versi, che sia l’amore o il sogno di cambiare la società. La realtà è che nella vita non si può sempre ottenere ciò che si desidera. Ma a volte si può, se ci provi.
“I migliori gruppi rock sono stati gruppi inglesi che sognavano di essere americani. Erano degli americani immaginari e così facendo hanno prodotto la miglior musica rock”: A dirlo fu uno scrittore inglese, ovviamente, ma c’è del vero. Nella sua lista Beatles, Clash e Stones. Personalmente ci aggiungerei anche i Led Zeppelin, ma è un dato di fatto che a volte chi sogna così ardentemente una cosa riesce poi a viverla meglio di chi in quella cosa ci è nato. Tra i brani rimasti nel cassetto di quello che alcuni considerano il loro disco migliore, e senz’altro quello che chiude il loro periodo migliore, Exile on Main Street c’è un brano straordinario.
Quel brano, recentemente pubblicato nella ristampa del disco in occasione dell’anniversario dell’uscita, è stato fatto anche un bellissimo videoclip che recupera lo spirito del Sud degli States di cui è intriso Exile. E’ Following the River, straordinaria ballata country soul intrisa di umori gospel e vibrazioni black, con un Mick Jagger che quasi non riesce a raggiungere le note che vorrebbe tanto è trasportato lui stesso in quel luogo magico dove solo la grande, grandissima musica può portare. Combatte, Jagger, una battaglia fra la sua condizione limitata di essere umano e l’esplosione di bellezza cosmica che lo sta attraversando grazie alla musica che gli scorre dentro e intorno. Ma il risultato è formidabile lo stesso, forse proprio perché il cantante non riesce a esprimere totalmente quello che vorrebbe, con la sua voce. Conoscendo la meticolosità del cantante degli Stones, Following the River fu scaratata probabilmente per questo, perché non è una esecuzione tecnicamente perfetta.
Il cuore di quell’America, terra benedetta della promessa, the promise land, sognata, avvicinata, vissuta dagli Stones è tutto nell’imperfezione di questo brano. Ecco perché, al di là degli stereotipi di cui si stanno imbevendo tutti in questi giorni di celebrazioni, si può dire che sì, i Rolling Stones sono stati davvero la più grande rock’n’roll band di sempre. Perché hanno sognato una cosa grande, sapendo che non sempre la puoi ottenere, ma se ci provi, a volte, ci riesci.