Una lodevole iniziativa, quella in atto in questo periodo, di rendere disponibili attraverso un noto settimanale diversi dischi di Frank Sinatra del suo periodo probabilmente migliore, gli anni cinquanta. E’ il periodo infatti in cui lo straordinario interprete lascia la Columbia Records dove aveva inciso negli anni quaranta, mettendosi in luce con un repertorio che ai tempi era stato definito per teenager. Anche Frank Sinatra insomma è stato un idolo del pop, anche se il pop di allora era ovviamente diverso da quello dei nostri giorni. Certo, aveva mostrato di che pasta era fatto, ma il suo momento migliore doveva ancora arrivare. Peccato che i cd in questione, nonostante il prezzo abbordabile (9,90 euro ciascuno) siano ristampe risalenti al 1998, dunque una masterizzazione già antiquata e soprattutto edizioni con un libretto di accompagnamento non molto esaltante, anche se contenenti note scritte da esperti americani molto illuminanti. Una operazione che sa di svuotamento di fondi di magazzino, in questi tempi di musica liquida scaricabile dalla Rete che sta uccidendo il compact, ma che è ben accetta. E anche molto. Sono parecchie infatti le sorprese a cui si troverà davanti chi deciderà di seguire queste uscite fino in fondo, sorprese che faranno piazza pulita di tanti luoghi comuni legati al vecchio Blue Eyes.



La prima delle quali risponde a una domanda: la musica rock è assordante? Le chitarre elettriche sparate a tutto volume fanno male alle orecchie? I dischi dei Metallica al giusto volume (il massimo, ovvio) sono inascoltabili? Evidentemente chi dice cose del genere non ha mai ascoltato un disco di Frank Sinatra a tutto volume, e queste ristampe della Capitol lo fanno capire. Provate a fare un viaggio in autostrada con la manopola a quel livello (quello alto) ascoltando “Songs for Swinging Lovers” o “Come Dance with Me!”, vi sfidiamo a riuscire ad arrivare fino alla fine dell’ascolto. A dimostrazione che a volte c’è più rock’n’roll dove il rock’n’roll non dovrebbe esserci, e che il rock’n’roll vero non sono chitarre elettriche, basso e batteria, ma piuttosto una attitudine che apparteneva già a Sinatra. Alcuni di questi dischi infatti sono talmente debordanti nella loro musicalità che suonano ancora oggi di una freschezza e di una potenza sonica da far paura.



Non è solo la sua voce (una delle “tre voci” del Novecento, insieme a Elvis e a Johnny Cash): è quella formidabile orchestra di fiati che spaccava nel vero senso della parola, producendo alcuna della più irresistibile e – ovviamente – swingante musica di sempre. Un insieme di fiati che viaggiava a mille all’ora, che volutamente veniva registrato a volume apparentemente eccessivo, a colorare queste canzoni di effetti potentissimi e irresistibili.

In un periodo di pura grazia artistica che va all’incirca dal 1955 al 1959, Frank Sinatra incise dischi di una bellezza travolgente. Abbandonato come detto il tono melenso da idolo per teenager del suo primo periodo, gli anni 40, e arrivato alla Capitol, con gli arrangiamenti e la produzione di due colossi del suono come Nelson Riddle e Billy May, Frankie si buttò a capofitto nella sua personale versione della nuova musica che stava nascendo proprio in quel periodo. Con l’occhio ancora a Broadway e a Gershwin, ma con una capacità di uscire fuori dalle regole come solo contemporaneamente stava facendo Elvis, Sinatra spaccò ogni regola della canzone che si conosceva fino ad allora, per produrre qualcosa di totalmente originale. Anche la sua voce cambiò, diventando scura, energica e soprattutto capace di arrotondare ogni parola che cantava con una espressività senza pari.



Il primo passo in tal senso fu il suo personale “Blood on the Tracks”, un disco – quello di Snatra – senza il quale non ci sarebbe oggi Tom Waits, per dirne uno. Se infatti “Blood on the Tracks”, disco di Bob Dylan uscito a metà degli anni Settanta, era la coraggiosa descrizione infarcita di crudo realismo del disfacimento in tempo reale del suo matrimonio, diventando per antonomasia il “disco della fine dell’amore”, “In the Wee Small Hours”, lo precede di quasi vent’anni.  Uscito nel 1956, fa ancora a meno dell’orchestra di fiati che lo accompagnerà di lì a poco. Frank non è ancora in quel mood: la sua love story con Ava Gardner è finita male, anzi malissimo, lasciando cicatrici profonde. C’è sangue nei solchi in questo disco esattamente come in quello di Bob Dylan,  probabilmente registrato alle prime luci dell’alba con il microfono in una mano e una bottiglia di Jack Daniel’s nell’altra (“Sono a favore di qualunque cosa ti aiuti ad attraversare la notte, che sia la preghiera, dei tranquillanti o una bottiglia di Jack Daniel’s”, disse una volta Sinatra) per vincere il dolore. 

Sono ballate jazzy che pescano anche nel blues, sostenute dal pianoforte e da una discreta sezione di archi. Ma c’è una voce, la sua voce, che sovrasta ogni cosa con un senso di dolore e di sofferenza che sono quasi impossibile da sostenere. L’altra notte, quando eravamo giovani, canta Sinatra con la consapevolezza che una storia d’amore che finisce si porta via un pezzo di vita. Non scrive canzoni, Sinatra, ma ne prende possesso in maniera così autorevole da farle sue. Ed è quello che accade per tutto questo  disco, inciso , cantato e vissuto nelle “piccole ore del mattino presto”, le wee small hours.

“Songs for the Swingin’ Lovers” è l’altra faccia della stessa notte. Inciso e pubblicato l’anno seguente, presente una serie di scintillanti composizioni dei più grandi autori di canzoni dell’epoca, ma presenta anche l’arrivo della strabiliante orchestra di Nelson Riddle. Se nel disco precedente si piangeva la fine dell’amore, qua la musica è il momento che permette l’incontro e la nascita di un amore. E’ il disco che contiene una delle più grandi interpretazioni di Sinatra, Under my Skin, ma anche brani come You Make Me Feel So Young, It Happened in Monterey, Old Devil Moon, How About You (con gli immortali versi “I like New York in june I like a Gershwin tune how about you”).

Qui la sfida per Sinatra è tenere testa a questa orchestra di magnifici pazzi che sbuca da tutte le parti, lo insegue, lo incalza costringendolo a dare il meglio di se per tenergli testa. Una sfida che rimane aperta fino all’ultima canzone senza vincitori e vinti: l’unico vincitore semmai è la musica, che da allora non sarà più la stessa e che da allora non è mai stata raggiunta a questi vertici da nessun altro, con buona pace dei cosiddetti nuovi crooner tipo Michael Bublè. 

Questa festa si rinnova in “Come Dance with Me!”, uscito nel 1959 e con il nuovo direttore d’orchestra, Billy May, che se possibile rende ancora più poderosa la sezione fiati. Un repertorio senz’altro minore rispetto a quello del disco precedente, ma il sentimento è lo stesso. Una frase qua, tratta da una delle bonus track che impreziosiscono queste ristampe, la dice lunga sul divertimento selvaggio che attraversava il Frank Sinatra di questo decennio. E’ contenuta nel duetto con la cantante Keely Smith, Nothing in Common, e dice: “Can’t stand the opera, I like music that bops”. Non sopporto la musica operistica, mi piace la musica che fa sltare. Il modo con cui lascia fuori uscire “BOPS”, gridato, ma con il suo modo raffinato, pieno di gusto e di una certa perversione, dice tutto. Lasciatevi catturare anche voi da questo “bop”, sarà difficile resistergli, e se il vostro umore non sarà di questo tipo, ci saranno sempre le “wee small hours” del mattino a farvi compagnia. 

(Paolo Vites)