I giovani che affollano le gradinate non numerate dell’Arena di Verona per vedere e ascoltare Roméo et Juliette di Charles-Henry Gounod non sanno che l’autore era un cattolico conservatore, che compose principalmente musica da Chiesa (e ce ne infilò pure nel lavoro sugli amanti veronesi) di grande successo tra il secondo Impero e la Terza Repubblica, ma così timoroso dei ‘miscredenti’ che quando, dopo la battaglia di Sedan, si profilava la ‘Comune di Parigi’, scappò nella Londra vittoriana e ci restò oltre tre anni (sino a quando la ricca borghesia trionfante aveva ben salde le redini del potere della nuova Repubblica francese). Non sanno neanche che era così famoso da essere era in gara con l’ateo Giuseppe Verdi per la pagatissima opera – vinse Aida – con cui inaugurare il Teatro dell’Opera del Cairo; aveva fatto il pensierino di operare, a braccetto il Khedivé d’Egitto (albanese di cultura italiana, lingua che aveva imposto a Corte), una maxi-conversione al cattolicesimo tra le due rive del Nilo.
Delle 12 opere liriche di Gounod, in Italia si rappresenta quasi solamente Faust, un lavoro per educande ben differente dall’originale di Goethe. In effetti, molti compositori italiani si sono cimentati con opere sui tristi amori veronesi: da Bellini (che, però, utilizzò poco di Shakespeare e molto della novella di Bandello) ai post-verdiani Vaccaj e Marchetti al post-wagneriano dannunziano Zandonai. Quindi, non si avvertiva tanto il bisogno d’importare la versione di Gounod; quando venne fatto (all’Arena di Verona nel 1977) si utilizzò una traduzione italiana che falsava il modo tutto francese di emettere il canto. L’opera si è rivista di recente grazie ad allestimenti de La Scala- Salisburgo e de La Fenice.
Questa produzione (regia Francesco Micheli, scene di Edoarda Sanchi, costumi di Silvia Aymonino) si distanzia dalle altre (piuttosto intellettualoidi) e situa la vicenda in un contesto da “Guerre Stellari”: una scena unica che assomiglia al Teatro Globe di Londra dei tempi di Shakespeare ma si apre nei due palazzi dei Capuleti e dei Montecchi; costumi atemporali (dai tempi nostri alla fantascienza passando per un Rinascimento immaginato ed immaginario); cantanti atletici (i due protagonismi fanno l’amore in uno smirato letto a 20 metri dal suolo del palcoscenico; duelli e lotte senza quartiere tra i giovani, scalate del Globe, e dei Palazzi); azione molto rapida con due brevi intervalli nei cinque atti; balletti integrati all’azione scenica. Ha fatto arricciare il naso ai benpensanti che in Arena amano i grandiosi allestimenti di Franco Zeffirelli e Hugo de Ana. Piace, però, al pubblico giovane che affolla le gradinate già prima delle 20 per un spettacolo che inizia alle 21,15 e termina all’1 del mattino.
Sperimentata per solamente due recite al termine dell’estate del 2011, ora è in scena sino al 26 luglio ed è già programmata una ripresa per l’anno prossimo.
Gounod ritoccò l’opera nel corso di vent’anni. Da opéra lyrique confezionata per l’Esposizione Universale del 1867 divenne gradualmente un grand opéra quando nel 1888 venne trasferita alla Sala Garnier, il Teatro dell’Opera costruito negli ultimi anni del Secondo Impero. Vennero aggiunte alcune arie e un balletto, ma il lavoro restò essenzialmente lirico: richiede una tessitura alta per il tenore, e una invece in grado di scendere a note gravi per il soprano. C’è una vera folla di baritoni e un sopranino leggero nelle vesti di un ragazzo – il paggio di Romeo. All’Arena i due protagonisti (John Osborn e Aleksandra Kurzak) hanno l’aspetto e la vocalità appropriata. Di livello, in effetti, tutta la compagnia, che comporta 12 solisti, coro e corpo di ballo. Spiccano Eufemia Tufano (Stefano, paggio di Romeo), Artur Rucinski (Mercuzio) e Giorgio Giuseppini (un imponente Frà Lorenzo).
Il maestro concertatore Fabio Mastrangelo sembra principalmente occupato a tenere bene l’equilibrio tra buca e palcoscenico (impresa non facile in uno spazio per 12.000 spettatori) e, quindi, non scava nelle preziosità della partitura. Non si può chiedere (e avere) tutto.