Un nuovo allestimento di  “Lohengrin” di Richard Wagner ha aperto il festival estivo del Tirolo a Erl. Il critico, notoriamente arcigno, del maggior quotidiano di Vienna, ha scritto che “da anni non si vedeva una produzione di pari livello” nei teatri di lingua tedesca, neanche al tempio wagneriano di Bayreuth.
Sono un appassionato del festival estivo del Tirolo poiché coniuga alta qualità e bassi costi (inoltre, più di metà dell’orchestra è composta di giovani strumentisti italiani). Sono corso a vederlo per due altri motivi: a) il 7 dicembre La Scala inaugura la stagione con un “Lohegrin” la cui produzione costa tra le otto e le dieci volte quella di Erl; b) dato che il 2013 è il bicentenario della nascita di Wagner è probabile che l’allestimento tirolese si veda a Bolzano, Piacenza e Ferrara, come avvenne due anni fa per la “Elektra” nata a Erl.



“Lohengrin” è stata la prima opera di Wagner rappresentata in Italia, nel tardo autunno del 1871 (a oltre vent’anni dalla sua composizione e dalla prima esecuzione nel piccolo teatro di Weimar). Verdi era in uno dei palchi; la ascoltò con attenzione; alla stazione ferroviaria (in attesa del treno per Parma e Busseto) incontrò il giovane Arrigo Boito (entusiasta mentre il buon Peppino era piuttosto perplesso, pur se ne recepì alcuni aspetti nei suoi lavori successivi).”Lohengrin” è l’opera di Wagner più rappresentata in Italia, sino a tempi recenti in una traduzione ritmica ripresa alcune stagioni fa in un circuito regionale.



L’intreccio potrebbe sembrare quello di un “grand opèra padano”, allora in sviluppo. La vicenda si svolge a Anversa, nel Brabante (quindi a rigor di geopolitica al di fuori della Germania). Enrico I di Sassonia (detto l’Uccellatore) vi si è recato per arruolare i Brabantinì contro una possibile invasione barbarica, allo spirare di un patto novennale di tregua con gli Ungaro-unnici. Wagner si attarda sulle indicazioni di scena (e sui costumi): compatti i Sassoni e gli altri tedeschi (tutti con le stesse uniformi e gli stessi stendardi), divisi in clan (ciascuno con la propria uniforme ed il proprio stendardo) i Brabantini (che hanno appena perso tanto la loro guida quanto il di lui erede).



La richiesta di Enrico I è accolta con freddezza dai vari clan, sino all’arrivo di Lohengrin, accettato come loro “Protettore”, e al suo deciso appoggio alla difesa contro la minacciata invasione, nonché soprattutto scelto, in seguito a un “giudizio di Dio” (un duello contro il generale brabatino Telramundo) come sposo di Elsa, figlia del Duca di Brabante e ingiustamente accusata dalla moglie di Telramundo, Ortroda, di avere ucciso l’erede al trono, Goffredo. Lohengrin è venuto da “una terra lontana” e non se ne conosce neppure il nome. Anzi, il patto per la difesa di Elsa e dei Brabantini è quello di non chiedergli mai chi è e da dove viene. È nella “terra lontana” (il Castello del Gral) che il cavaliere ritorna quando, spinta dai subdoli inganni di Ortruda, Elsa gli pone le domande fatali. Lohengrin parte ma Goffredo riappare: era stato trasformato da Ortruda nel cigno che trainava la navicella dell’eroe.

La direzione musicale e la regia di Gustav Kuhn mettono in rilievo come in  “Lohegrin” s’intrecciano, mirabilmente, vari elementi, ciascuno appartenente a un universo musicale differente, benché legate da un continuo flusso orchestrale dove dominano gli archi: a) il contesto storico dell’unità del popoli tedeschi di fronte all’invasione  (diatonico quasi sino alla spasimo); b) il contrasto tra varie declinazioni del cristianesimo (e la visione lontana del Santo Gral e della Verità), dei Sassoni e dei Brabantini e il paganesimo di Ortrud e Telramund, il soprano, o mezzo soprano, perfido e il baritono (denso di anticipi cromatici); e c) l’incapacità di Elsa, il soprano lirico, di trasformare in vero amore il suo innamoramento per Lohengrin (con tratti ancorati allo Spontini del periodo prussiano) e di assimilare a pieno la Verità. Sino agli Anni Sessanta, l’opera veniva messa in scena come una storia d’amore con uno sfondo storico. Solo più di recente è stata data centralità agli aspetti politici, psicologici e religiosi del lavoro.

Altrove, sulla traccia d’Adorno e di Bortolotto, ricordo che la “religio” è il fulcro dell’opera. I Brabantini sono cristiani, ma di conversione relativamente recente. In Brabante, il cristianesimo convive con vecchie forme di “paganesimo”, quelle praticate (con magie, filtri e l’insinuazione del dubbio rispetto alla Verità); secondo  ricerche storiche recenti, il normanno Re Nollo, dopo essersi convertito, faceva grandi donazioni alle chiese cristiane, ma sacrificava i cristiani prigionieri agli dei pagani; nella sala del trono di Re Redwald (padre di Ortruda) c’erano due altari, uno più grande per la Messa, e uno più piccolo per offrire sacrifici ai demoni. La stessa, pur purissima Elsa, il soprano lirico di stupenda e struggente virtù, diventa, nella prima scena del terzo atto, spergiura scatenando il dramma conclusivo. La regia pone l’accento su la giovinezza (Lohengrin) alla ricerca della verità all’interno di una società complessa.

Sotto il profilo musicale, l’orchestra (oltre la metà sono giovani italiani) e il coro (supportato quest’ultimo dalle voci bianche della Parrocchia di Erl) danno un’ottima prova. In secondo luogo, un cast internazionale in cui prevalgono le due protagoniste femminili: Susanne Gebb (la purissima Elsa) e Mona Somm (la perfida Ortruda seguace della magia nera del paganesimo teutonico). Ferdinand von Bothmer  ha un buon timbro e ha retto bene il difficilissimo terzo atto. Thomas Gazheli è efficace nella parte di Federico (marito fellone d’Ortruda). Di rilievo Andrea Silvestrelli nel ruolo del Re.