Patti Smith e Esperanza Spalding. Due modi esteriormente differenti, ma intimamente simili di restituire alla musica la sua funzione originale, quella congenita di provocazione e di inesauribilità dell’impeto umano come continuo rimando e chiamata a raccolta davanti all’affacciarsi dell’altra riva. In entrambe risplende quell’essenzialità propria dei grandi, non quella malintesa essenzialità che fa della sottrazione degli elementi il proprio credo, ma quella vera e autentica che ha il passo inconfondibile del cuore e di quelle istanze che segretamente e con pazienza si schiudono per esplodere come una giornata di insospettate e impensabili rivelazioni.
In un’estate sempre più dilaniata dalla formula tipicamente persecutoria dei tormentoni economici, sballottati tra stillicidi anglofili a suon di spread e spending, ecco un tormentone che ci piace e ci risveglia. La Spalding & Smith review. Non la solita agenzia d’affari, ma un’agenzia che investiga l’arte. E della migliore. Quasi quarant’anni di differenza tra la sessantacinquenne Smith e la ventottenne Spalding ma in comune un’espressività dirompente come quella della nascita di una creatura attesa e al contempo inaspettata, come fioritura sorpresa in un angolo segreto della solita vecchia distesa di terra. Due differenti generazioni accomunate e tenute insieme da quell’impeto duraturo che è quello dell’amore cercato, scoperto e dichiarato.
Di Esperanza Spalding se n’è parlato a più riprese in quest’ultimo scorcio di stagione, dalla recensione del suo nuovo notevole lavoro discografico “Radio Music Society” che unisce le istanze più riposte della black music e il grande respiro del suono d’ensemble jazzistico, alle sue apparizioni continue e instancabili alla corte delle più importanti kermesse di settore dell’estate in corso. La performance rilasciata nella serata a lei dedicata lo scorso 21 luglio presso il castello valdostano di Forte di Bard all’interno della rassegna Musicastelle in Blue (vera e propria rapida trasposizione estiva della stagione milanese del “Blue Note”) ne ha esibito e passato in rassegna sapori, modalità e singolarità d’abito sonoro.
Coadiuvata dal fido pianista/tastierista argentino Leo Genovese, dal batterista Lyndon Rochelle, dal chitarrista Jef Lee Johnson, si avvale dell’appoggio provvidenziale di una dilatata sezione fiati (tre sassofonisti, due trombonisti, due trombettisti) dove spiccano i contributi della musical director e sassofonista Tia Fuller e le suadenti coloriture vocali della corista Leala Cyr (tra l’altro anch’essa trombettista in alcuni brani). Un’ora e mezza quasi spaccata di musica dove caratteristica saliente è rappresentata dalla messa in scena di un concerto squisitamente a soggetto, l’ultimo album della bassista e cantante americana eseguito nella sua quasi totale interezza. Preceduti da un’escursione con funzione introduttiva della band (dal titolo programmatico “Us”), scorrono i brani tratti da “Radio Music Society” in una sequenza che capovolge e ridefinisce l’ordine del disco sia sotto il profilo della successione tra brani che di quella dell’arrangiamento.
La natura squisitamente soul-funky del lavoro rappresentato viene a tratti riproposta fedelmente con energia e groove in surplus, ma con puntuali e chirurgiche dilatazioni che catapultano il singolo brano in area jazz. Così la morbida, epocale e cinematografica ballad metropolitana “Cinnamon Tree” conta su una tipica intro d’ensemble, mentre la cover di “I Can’t Help it” ne impasta l’indole funky con la scioltezza dilagante dell’escursione solistica di una incontenibile Tia Fuller al sax alto. Il mood complessivo non contagia le più frizzanti e funk-oriented “Crowned and Kissed” e “Black Gold” ma ammanta “Hold on Me”, la shorteriana “Endangered Species” e una liquida “Smile like That” dove la nostra sferra la sua ricorrente pura, vibrante e ostinata nota vocale lunga a (dura) prova di cristallo. Concerto concluso in magnifico surplace dall’esteso e sfavillante caleidoscopio armonico-vocale di “Radio Song” e dal bis in binomio contrabbasso/voce con il bellissimo standard d’annata “Throw it Away” di Abbey Lincoln.
Patti Smith rappresenta l’altra faccia della stessa preziosa medaglia. Altra atmosfera, altri intenti, altri tempi e modi, una mise sonora d’altra pasta, ma alla base un amore agognato come aria da respirare, che vuole essere dichiarato e corrisposto oggi come circa quarant’anni fa, quando la Smith era una ragazza come oggi lo è la Spalding. Questa è forse la sola vera essenzialità che è propulsore, oggi come ieri, del far musica. Il volto dell’amore oggi raccontato dall’artista americana è a un tempo uguale e differente da ieri. Della Smith di ieri permane, con le piccole ovvie sfumature del tempo, la voce densa, velatamente cavernosa e arcuata, ora invasata ora dolce e materna. Supportata dal playing diretto e senza fronzoli del sempre presente ottimo Lenny Kaye, del batterista Daugherty e da una band tosta il giusto – nello scenario suggestivo e inopinatamente refrigerato di uno strano 23 luglio alla Villa Arconati di Bollate, materna è la resa dell’iniziale “Redondo Beach” strappata alla sua originaria impertinenza per accentuarne un docile andamento tropical, mentre dolce e struggente è il disegno dell’epocale “Dancing Barefoot” che con le sue ampie aperture vocali e i suoi larghi accordi strumentali raffigura un varco continuo in una memoria che trapassa immagine e segno.
Un autentico brano-musa che è ancora oggi pietra di paragone per quella tradizione che si rinnova con “This is The Girl” e “Fuji-San” e che si fa vivida e folgorante in una “Maria”, vero nuovo capolavoro della nostra eseguito a serate alterne e che nella notte milanese lascia il campo a una “Nine” – il brano dedicato a Johnny Depp – non meno fremente con la sua gravità sospesa tra respiro street e indole maudit. E se “Ghost Dance”, altro memorabile reperto tratto da “Easter” unisce l’immensità narrativa di “Dancing Barefoot” a un’epica tipicamente morriconiana alla “Here’s to You”, sulla stessa scia fatta di memorie, nostalgia e lacerazione si pongono una realmente toccante “Pissing in a River” e l’invocazione spasmodica di “We Three”.
Il finale sembra non dare tregua a quella che – similmente alla parabola di una intera carriera – ancora oggi si fa presente come contraddizione del segno. Da una parte il dolce agonismo r’n’r di “Because the Night”, la ninna-nanna di “Peaceable Kingdom” e l’irresistibile trip cangiante di “Gloria”. Dall’altra l’impatto frontale della title track del nuovo album “Banga” (“one love, one people, one fucking chord”, così la Smith la porge alla platea) e la verve feroce di “Rock’n Roll Nigger” lasciano sul terreno un sentore di puro vetriolo. In mezzo a queste polarità di segno opposto sta quella irriducibile anima bambina di Patti, quella che si sorprende ancora oggi – a 65 anni – in quanto tale e che vede nella bambina invitata sul palco a Gardone Riviera il riflesso di sé come anima sempre in cammino verso l’agognata meta.