Italia, 26 febbraio 1959. Dopo aver vinto cinque milioni di lire a «Lascia o Raddoppia» come esperto di funghi, John Cage esegue «Water Walk», sua composizione per pianoforte, cinque radio, vasca da bagno, innaffiatoio, cubetti di ghiaccio, pentola a pressione, frullatore e altro ancora.
“Torna in America o resta qui?”, gli chiede uno sbigottito Mike Bongiorno. Risposta: “Io torno… Mia musica resta”. Replica del conduttore: “Era meglio il contrario: che la sua musica andasse via e lei restasse qui”. E tutti giù a ridere. Che splendida battuta, diavolo d’un Mike, come solo lui sapeva improvvisare. Invece non era un auspicio, ma un’esatta profezia.
A vent’anni dalla morte e un secolo dalla nascita, Cage è rimasto, ma la sua musica se n’è andata. “I suoi suoni non hanno più, per il nostro presente, alcun interesse”, dice Danilo Lorenzini, pianista, compositore, musicologo milanese. Gli fa eco Carlo Boccadoro, devoto “cageano”: “Di Cage si parla moltissimo ma lo si esegue pochissimo. Quindi non dico altro”. L’apparizione di Cage ha diviso e illuminato il ‘900. Alcuni giudizi “critici”: pagliaccio (Paolo Isotta), arlecchino (Piero Rattalino), anarchico (Achille Bonito Oliva), infantile (Gianandrea Gavazzeni), astuto goliardo venditore di nulla (Fedele D’Amico), ingenuo rivoluzionario (Ennio Morricone), meteora (Paolo Fresu), amalgama perfetto di amabilità e ferocia intellettuale (Guido Zaccagnini). Schönberg aveva puntualizzato: non musicista, ma geniale inventore.
“Da lui ho imparato ad ascoltare il silenzio – spiega il pianista Roberto Prosseda – mi ha insegnato che per amare il pianoforte è anche utile trasformarlo in qualcos’altro; che per suonare veloce e chiaro prima di tutto devi sentire lo spazio tra i suoni e ascoltare te stesso”. Del concerto classico Cage ha allestito la cerimonia funebre; però, grazie al suo insegnamento, anche le tapparelle abbassate dal vicino di casa diventano una Sinfonia (parola di Aldo Nove). I suoni di Cage sono estroflessi, in fremente attesa. La sua lezione evoca la vertigine intellettuale di uno spazio sonoro assolutamente libero. Tanta libertà che nessuno sa più che fare.
Cage disegna la barba alla Gioconda (i baffi c’erano già): venti pagine di accordi da suonarsi al freddo, in successione e/o sovrapposizione di venti pianisti («Winter Music»); dodici radio accese e sintonizzate a caso da ventiquattro “esecutori” («Imaginary Landscape n. 4»); immobilità, meditazione, astensione da ogni suono, per il musicista di «4’33’’»; tasti dell’organo premuti con sacchetti di sabbia e cambiati ogni semestre («ASLSP»); colossali bevute a canna con microfono appoggiato alla gola per amplificarne il trionfale brindisi; Concerti per pianoforte chiuso; o avvitato gommato incartato imbullonato smanacciato; suites per tastierine giocattolo, sonatine per fischietto d’anatra di gomma, percussioni di foglie rami coperchi mestoli tazzine cerchioni d’auto.
Vietato scuotere la testa. Siamo di fronte a un accadere (chiamatelo pure happening o performance); un “contatto” i cui risultati sono imprevedibili. L’intenzione è esclusa, il gusto individuale respinto, ogni commento superfluo, il giudizio non richiesto. Si è creata un’apertura comunitaria al piacere dell’ascolto? Bene. No? Riprova, sarai più fortunato.
Una vita intera per imparare a perdersi. Smarrito tra filosofie orientali, élites omosessuali, giocosi esperimenti, ben pagate mistificazioni. La sua “musica” (virgolette obbligatorie) è fantastica, vorace, sussultoria, al modo di un pirotecnico bengala: goduriose manciate di secondi in mezzo a quarti d’ora di noia; pioggia di frammenti, progetto di sublimazione alchemica fallito: il piombo diventa latta, gratti l’oro e trovi il ferro; provocazioni obbligatorie, con sorriso incorporato, come mangiare il proprio gatto in salmì. Il vitalismo afferra l’attimo nella sua fantomatica fisicità, nella sua misteriosa estemporaneità. Una scrittura concitata e crepitante, tesa al colpo di scena, che raramente arriva; oppure cade in profonde ipnosi e atterra su pianeti spenti; o, ancora, aperta all’imprevisto, protesa verso la gioia.
Allora perché lo spettacolo classico è tuttora rito, cerimonia, solennità? Risponde il bresciano Mauro Montalbetti: “Vado a teatro, mi siedo, scarto piano la caramella per non disturbare, ascolto in religioso silenzio. La musica del nostro tempo richiede invece sperimentazione e diversificati modi di fruizione. Molto interessante il concerto al buio proposto recentemente dal gruppo Sentieri Selvaggi al Ridotto del Grande: un’esperienza sensoriale nuova e apprezzata”.