Alcuni giorni fa ero in montagna. Passeggiavo di sera con un amico e a poche centinaia di metri da noi, sotto lo stesso cielo stellato che abbraccia il Monte Bianco, un gruppo di voci intonava “Vorrei ritornare bambino/ e guardare ancora il fuoco/ la Storia più grande è il Destino/ che si svela a poco a poco/ la notte che ho visto le stelle/ non volevo più dormire/ volevo salire là in alto per vedere/ e per capire...”. Due sere dopo in una chiesa veneta di periferia, un prete intonava durante la messa una canzone nella quale si loda Colui che “m’ha dato i cieli da guardar” e “la bocca per cantar”. Entrambe canzoni di Claudio Chieffo, cantautore di sconfinata immediatezza che ci ha lasciato giusto cinque anni fa, in quel 19 agosto del 2007 che segnava la fine di una lunga malattia.
Autore di canzoni, narratore di storie, interprete di una ricerca umana dalle debordanti energie, Chieffo ha iniziato a scrivere già negli anni Sessanta canzoni sfrontatamente religiose senza curarsi delle opportunità di tenere nelle sagrestie quelle parole che mettevano insieme Dio e gli uomini, la fede e il tradimento, la luce e le bassezze, la Madonna e il vino, i figli e le preghiere, la felicità e l’ideologia. Negli anni di Guccini e De André, della Buona novella e di Dio è morto, Chieffo era il primo giovane cantautore a incarnare una sfumatura particolare: era cattolico. E così poteva permettersi di mescolare con la sua voce amore, Trinità e destino cantando cose scomode e forse improprie per quei tempi, raggiungendo forse nella Ballata dell’Uomo vecchio (scritta già nel 1964!) uno dei suoi picchi migliori: “La paura che c’è in me, l’amore che non c’è hanno mille secoli/ tutto il male che io so, la fede che non ho hanno mille secoli/ Sono vecchio ormai, sono vecchio, sì/ ma se Tu vorrai mi salverai”.
Cattolico fino al midollo, Chieffo non era però il prototipo del bigotto con la chitarra, pio e melodiosamente noioso. Ricordo infatti che tra le tante cose che lo infastidivano (ed era fastidio carnale, tosto e iroso: in fin dei conti Claudio era un romagnolo sanguigno e rosso di capelli) c’era pure la definizione di “cantautore cattolico”. Mi aveva detto davanti a un caffè (quella volta eravamo a Lourdes): “io non canto per questi o per quelli. Anzi: quando scrivo, io non scrivo per questi o per quelli”.
Beata innocenza. Beata ingenuità: Claudio non scriveva per un pubblico prefissato. Lontano dal marketing, scriveva canzoni quando c’era da dire qualcosa, quando c’era da esprimere un senso, un ringraziamento e un grido, quando la storia diventava così urgente che bisognava in un qualche modo darle forma e musica. Non scriveva per un pubblico da accontentare, per fortuna sua. Non calcolava l’opportunità come oggi fanno tutti, da quelli di X Factor ai cantautori-sacerdoti.
Claudio batteva il tempo con il cuore, pompava forte, era energico e istintivo. E infatti ha scritto senza calcoli tante canzoni per i suoi amici: una di quelle produzioni artistiche che arrivano quando un artista è tirato dentro negli affetti, nelle cose che non lasciano indifferenti. Ha scritto canzoni per Luigi Giussani (tra le altre la bellissima Quando verrai: “Quando verrai a casa mia/ chiamerò tutti gli amici/ quando verrai a casa mia/ porteranno i loro doni/ E, se vorrai, siamo pronti ad ascoltare/ chiamerò tutti gli amici, porteranno i loro doni/ Tu mi conosci bene/ anche l’ombra del mio pensiero/ Tu mi conosci bene, cambia il falso che ho dentro in vero/ sei già venuto un giorno/ nel mio cuore conservo il tuo ricordo”) e
Per Bill Congdon (non solo la nota Alleluia della forza, ma anche la meno conosciuta Desire: “Io leggo la musica nei campi di grano e lungo i fianchi delle colline/ nelle tue lacrime disperate per un dolore senza fine/ Lungo i binari di un vecchio treno, nei sogni grandi di un ragazzino/ tra tutte le stelle della notte e l’ultima del mattino”), per Andrej Tarkovsky e per la sua famiglia (troppe canzoni: impossibile citarle tutte….), per Luigi Negri (da scoprire è Di più: Ma che bella giornata ho passato con te, non potevo sperare di più/ Un Amico sincero è venuto per noi/ non potevo cercare di più”) e per Francesco Ricci, per Alessandro Russo e David Horowitz, il grande musicista e amico americano, per il quale aveva scritto Il Dono: “Da quell’altra parte del mare/ un Amico ci sta aspettando/…e le onde, le onde del mare/ piano piano ci stan portando/ da quell’altra parte del mare”.
Ma Chieffo, si sa, scriveva su tutto. Sulle ideologie e sulla fine del Partito comunista italiano (Festival), sulla televisione (La televisione: “Quando passo davanti a un video spento, non mi trovo neanche male/ io mi guardo negli occhi e in quel momento io mi sento un po’ immortale/ Sono la televisione, sono un uomo virtuale/ se mi spingono un bottone, vivo sul telegiornale”), sulle nostre piccole ignobili fughe di fronte alla vita (La guerra), come anche sulla morte di Martin Luther King (Faccia a faccia: “La morte di un uomo e le sue mani/ il tempo passato ed il domani/ e non puoi fare altro che pregare, che chiedere a Lui che ti ha dato tutto/ la forza di continuare”). Prendeva fatti veri personali (Marta Marta) e di amici (La canzone di Maria Chiara) e li trasformava in narrazioni sonore, raggiungendo in certi casi dei picchi di assoluto equilibrio poetico, come nella sua Ave Maria: “Ave Maria, splendore del mattino/ puro è il tuo sguardo ed umile il tuo cuore/protegga il nostro popolo in cammino/ la tenerezza del tuo vero amore”.
Quando Claudio si è spento ero al mare con amici. Ci siamo messi a guardare le stelle nel blu notte del cielo della Grecia e abbiamo cantato quella sua canzone che celebrava la bellezza dell’infinito firmamento come una cosa tutta da capire.
Cinque anni son trascorsi e le sue canzoni sono cantate in periferia come in montagna, a Roma come a Madrid. Cinque anni dopo c’è una forza artistica e umana che non si è spenta in quelle strofe e in quei ritornelli. Cinque anni son passati e conservo una sensazione e una certezza: che di Chieffo abbiamo iniziato a capire, ad ascoltare, a ricordare solo poche cose, solo l’inizio. Ancora tantissimo rimane da scoprire perché, in fin dei conti, è incredibilmente “grande questa nostra vita”.