Il campanello d’allarme suonato lo scorso anno all’interno del pur bell’album live “Time Machine” si trasforma di schianto in sirene che scuotono violentemente l’aria metropolitana di quest’inizio estate. Quello che fu lo splendido treno ad alta velocità Rush è finito per deragliare causa eccessivo uso di un mezzo che ha cavalcato le stagioni anche nelle condizioni più avverse, contro tutto e tutti compreso da ultimo un minimo di realismo.
Se questo “Clockwork Angels” nuovo lavoro del trio Lee, Lifeson e Peart non eguaglia per inconcludenza e staticità “Vapor Trails” non è per particolari ritrovate qualità e ispirazione quanto per una sorta di legge dei grandi numeri. Peggio di quel disco targato 2002 era arduo fare. D’altro canto meglio di un disco come “Snakes & Arrows” (2007) – che dopo un numero di album in studio ormai eccessivo era da salutare come una fresca boccata d’ossigeno almeno per la sua metà buona (l’altra era del tutto inutile) – era difficile, impossibile fare. Di più, a quel punto era impresa di dubbia opportunità.
Il grande trio canadese ha deciso per un sì, ma quasi di straforo come quello di vecchi acrobati da circo che pretendono di volteggiare ancora oggi senza rete come un tempo. Ecco allora l’album che si prevedeva e temeva qualche mese fa, un mattone dal suono pesante, malfermo e dissestato. Che nasce come un collage di architetture traballanti come ruderi, supportato da un gioco armonico ridotto ai minimi termini e da effettistica, delay e overprocessing a chili a mascherare tristemente le sembianze sfatte di un volto musicale in stato di avanzata decomposizione. Il tutto accompagnato dalle liriche sempre più esangui e dismissive di Peart. Anti-religiosità declinata con piglio autolesionistico, fatalismo di riporto, disincanto consunto da slogan.
E sotto il profilo musicale? Disastro puro nelle ostentate epic tracks del disco. La title “Clockwork Angels” e “Headlong Flight”, brani oltre i sette minuti, affondano sotto i colpi di un tessuto sonoro ormai logoro e privo di costrutto tematico come un mastodonte senza luci, aria e vita.
L’ago della bilancia pare spostato sulle coordinate di una random jam fatta di grooves appesantiti e ricorso sistematico all’arrangiamento come astuto escamotage. La scrittura vocale di Lee sbanda pericolosamente tra non più di due note e qualche sgraziata impennata vocale. La chitarra di Lifeson si sfalda nel maniacale gioco al massacro della distorsione e della sovraproduzione trovando un buon spunto solo nel largo e solenne riff di una “Seven Cities of Gold” per il resto in linea con il marasma generale.
La meno peggio di questo lotto da dimenticare in blocco è “The Anarchist” che, al di là di una stanca citazione del sontuoso riff della grande Jacob’s Ladder”, offre un chorus di buona fattura con un vago sentore di respiro melodico.
Si salvano la discreta e già conosciuta “Caravan”, e le sortite AOR-FM rock di “The Wreckers” e “Wish Them Well”, che pur senza eguagliare i fasti passati di quell’area, suonano quasi piacevoli e consolanti al cospetto della uniforme e snervante giungla d’asfalto musicale che domina il lavoro.
Chiude quasi inaspettatamente l’unico bel brano dell’album. “The Garden”, miscela di sonorità elettro-acustiche, atmosfere che agganciano – pur senza l’originaria istanza visionaria – l’immaginifico di un antico capolavoro come “Presto”, un onirico solo di Lifeson con riverbero e un avvolgente chorus finale con vocalità concentriche. Bravi, ma finiamola qui per favore.