In una cena a Roma l’autunno scorso, la Presidente del Festival di Salisburgo Helga Rabl-Stader (che due lustri fa ha abbandonato un’avviata carriera politica per prendere in mano l’importante manifestazione), lo aveva anticipato a pochi melomani, qualche industriale e qualche politico: “Metteremo in scena Die Soldaten di Bernd Alois Zimmermann anche se al solo pensiero ci tremano i polsi, ma lo faremo perché, mai come ora, questa opera è attuale sotto il profilo musicale e politico-sociale”. Il Festival ha trovato come partner per l’enorme impegno produttivo (40 solisti, un organico enorme diviso in tre orchestre, più di una dozzina di cambiamenti di scena, un’apparecchiatura elettroacustica, proiezioni) La Scala di Milano dove l’opera è programmata per il 2013-2014 (ma dove l’impianto scenico presentato alla Felsenreteschule – teatro ricavato nella cavallerizza di Salisburgo – dovrà essere adatto alle esigenze della sala del Piermarini.
Die Soldaten (che ha debuttato a Colonia nel 1968) è riconosciuta come uno dei lavori più importanti degli ultimi cinquant’anni sotto il profilo sia drammaturgico sia musicale. Ma, a ragione della complessità dell’allestimento, pochi lo hanno visto ed ascoltato dal vivo – in Italia è stato portato dal Teatro di Colonia per poche sere al Maggio Musicale Fiorentino negli Anni Settanta – , sono rare le edizioni in CD, esiste una versione in DvD dall’Opera di Stoccarda che rende, però, solo un’idea approssimativa del lavoro.
Die Soldaten è un apologo della vita militare (e dell’esistenza umana in generale) basato su un dramma in 35 scene di Jacob Lenz che pubblicato nel 1776 ha debuttato in teatro soltanto nel 1863. Nell’apologo, gli uomini sono soldati, “eternamente condannati a fare la guerra”- si potrebbe dire secondo un verso di Kipling che ispirò un romanzo americano e un film di successo (Da qui all’eternità) degli Anni Cinquanta.
In quanto soldati, se non vengono illuminati dalla Fede, gli uomini sono sempre e costantemente in guerra o, nelle fasi di conflitto armato, contro i ‘nemici’, oppure, negli armistizi, contro i loro simili, specialmente contro i più deboli, come le donne.
Nell’opera, Maria, brava figliola di un commerciante, fidanzata a un sarto, è attratta da un ufficiale aristocratico (in licenza durante un armistizio), è ceduta da costui ad altri (sia aristocratici sia stallieri sia soprattutto truppe affamate di donne) e portata alla prostituzione e alle peggiori malattie, nonostante gli sforzi del Cappellano dell’esercito e della madre di uno dei suoi amanti passeggeri di evitarle tale destino. Nel quadro finale, dopo una guerra totale, sono morti tutti i protagonisti tranne Marie e suo padre, che non la riconosce ma le da un’elemosina, mentre una voce dall’alto, quella del Cappellano, intona il “Pater Noster”.
Zimmermann, nato nel 1918, è stato sul fronte polacco e russo per la durata di tutta le seconda guerra mondiale. Il trauma di quell’atroce esperienza gli è durato per tutta la vita. Isolato dalle principali scuole musicali tedesche (in quanto tutt’altro che costruttivista o marxista), ha avuto una buona carriera accademica e composto, a 39 anni, un’importante vasta cantata tratta dall’Ecclesiaste. Aveva un rapporto complicato con la Fede: Die Soldaten termina con il “Pater Noster” e contiene citazioni da un “Dies Irae” gregoriano, ma il suo autore si tolse la vita proprio dopo il successo di critica e di pubblico della “prima” del suo lavoro a Colonia.
Il messaggio dell’opera è – come diceva otto mesi fa Helga Rabl-Stader – oggi attuale più che mai: in un mondo travagliato da guerre e violenza unicamente l’Alto può darci la serenità, ed il coraggio di vivere che Zimmermann non ha avuto.
Lo è anche musicalmente. L’opera è rigorosamente dodecafonica e imperniata su una rigorosa forma musicale (strofa, ciaccona, toccata, ecc.) – come in Alban Berg. Alcune scene si svolgono contemporaneamente. Vari stili (da Bach, a canzoni popolari, a jazz, a sequenze da un Requiem gregoriano) si fondono. Il canto è portato agli estremi delle possibilità umane pur facendo comprendere ciascuna parola (in tedesco) in quanto note, vocali e consonanti sono plasmate in modo di essere un tutt’uno.
La sera del 22 agosto (quando ho assistito all’opera) l’enorme auditorio era pieno (nonostante gli alti prezzi) e le file di “posti in piedi” affollati da giovani. Dopo l’ultima nota che chiude la preghiera del Cappellano, ci sono state vere e proprie ovazioni, nonostante fossero terminate due ore e mezzo (intervallo compreso) di musica dilaniante con cui si rappresenta la morte spirituale e fisica di un mondo senza Dio.
Di grande impatto (e difficilmente replicabile) l’allestimento scenico a ragione dello smisurato boccascena in cui le varie azioni vengono, a volte, rappresentate contemporaneamente mentre nel fondo scena 12 destrieri (con soldati ed amazzoni) fanno esercizi da concorso ippico. All’impianto scenico di Alvis Hermanis e ai costumi di Eva Dessecker (non settecenteschi, ma stile guerre mondiali del Novecento) corrispondono tre grandi orchestre, una in buca e due nei lati della cavea dirette di Ingo Metzamacher. In buca prevalgono archi, fiati e ottoni. Ai lati percussioni e strumenti a corda, dando forti effetti stereofonici. L’azione è veloce per non allentare la fortissima tensione. Ottima la compagnia. Tra i 12 protagonisti, su 40 solisti,i spicca l’ormai milanese Laura Aikin, un soprano americano che come poche ha saputo gestire bene la propria voce. Da augurarsi un DvD.